L’alcova messa in versi da Sebastiano Grasso

Intimità amorose nella raccolta «Il talco sotto le ballerine»

Ho un debole più volte confessato per la letteratura di argomento erotico. Credo che nel rapporto con l’erotismo ogni essere umano si giochi una parte decisiva della propria felicità e infelicità. E che l’esplorazione dei territori dove l’erotismo si dispiega sia un processo infinito di conoscenza di noi stessi e degli altri, e forse dello stesso universo. La poesia, per sua natura, è sempre stata il veicolo principale del discorso sull’eros. Qualche poeta freddino, o prudente, o distratto sembra dimenticarlo. Altri, per fortuna, votano all’eros il proprio impegno nei versi, come continua a fare Sebastiano Grasso in questa sua nuova raccolta, Il talco sotto le ballerine (Es editore, pagg. 100, euro 11).
Nella prima parte, ogni testo porta un’epigrafe che è un verso indirizzato da Giuliana, la donna amata, al poeta stesso. Sono versi che compongono una perentoria, affettuosa e giustamente impudica litania del desiderio: cominciano tutti con «Ti voglio», e del desiderio percorrono tutti i sentieri. Grasso risponde, dialoga con la fonte del suo perturbamento: e la poesia diventa una confessione ora mormorata ora urlata, istintiva, vitale, rimemorante, con toni che passano agilmente dal lirico al narrativo, dall’elegiaco all’epigrammatico, e che richiamano alla mente, più che i poeti italiani, i maestri di lingua spagnola del Novecento, da Neruda ad Alberti. Grasso ci mostra la geografia del cuore degli amanti, tra Lombardia, Sicilia e Veneto, rievoca con potente vivacità i momenti delle colazioni, delle albe e dei risvegli, delle soste ai ristoranti, delle corse verso le stazioni, dei saluti con baci che sanno di menta.
Ma qualcosa di minaccioso grava sulla felicità degli amanti. Il Paradiso terrestre è lontano. Qui tutto si paga. L’erotismo non è innocente. Il poeta fotografa la sua donna mentre si lava i denti nuda «in bagno come se tu fossi / in una vetrina di strada ad Amburgo». L’eros sa essere più dolce del miele e più amaro di un postribolo. Finito il dialogo con i versi dell’amata, il poeta si ritrova solo. Il libro cambia tono. La catastrofe adombrata da troppe partenze e troppi ritorni è avvenuta. La donna amata rimane lontana. La logica della famiglia ha avuto la meglio su quella eretica dell’amore. Lì la poesia si impenna in toni sconsolati, anche se mai di invettiva. C’è un attacco di nitore classico, che fa pensare a Catullo, maestro supremo della poesia erotica: «Basta, mi dico, non meriti i miei baci». Per ricordarci che non è un poeta dell’età di Cesare a scrivere, ma un poeta a Milano nel Ventunesimo secolo, segue quest’altro verso: «e neppure duemilacinque telefonate».
Con tristezza catulliana il poeta vorrebbe prendere le distanze dalla donna amata, accanirsi contro di lei. Ma non è questa la strada.

L’eros brucia sino all’ultimo verso di questo libro. E se naturalmente non posso fare previsioni su come evolverà la passione dell’autore, di una cosa sono certo: che ha ancora tanti, tanti versi erotici da scrivere per i suoi lettori.

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