In catalogo, ci sono più di cinquecento libri che ne parlano. Tra questi, un’ottantina sono stati pubblicati soltanto l’anno scorso. In questi ultimi tempi, la Cina e i cinesi sembra abbiano fatto uno strano effetto all’editoria italiana. I saggi a essi dedicati sono infatti più numerosi di quelli sull’esoterismo, sulle logge massoniche e sul Vaticano. Superano perfino quelli sulla mafia e sulla globalizzazione. E se si aggiungono le monografie dedicate a Mao e ai suoi accoliti sfiorano quota duemila. Più che un tema, stanno diventando un genere, come i thriller o i noir. Nulla di strano, si direbbe, specie se si considera il ruolo del Celeste impero nella politica e nell’economia internazionali. Il guaio è però che a questa (sacrosanta) attenzione in sede accademica e divulgativa ha fatto seguito una crescita, speculare ed altrettanto rigogliosa, di supposti esperti e studiosi della materia, che hanno generato un’incredibile ridda di interpretazioni errate e quasi sempre devianti.
A dire il vero, il problema non è poi così recente: se si dà una rapida scorsa agli studi e alle analisi sulla Cina, ci si accorge presto che più che una riflessione su una civiltà, la produzione occidentale narra la storia plurisecolare di un malinteso. Escludendo infatti due illustri viaggiatori italiani - il veneziano Marco Polo e il missionario gesuita Matteo Ricci - dalla prima ambasceria inglese in avanti (anno domini 1792) è un susseguirsi di incomprensioni, iniziate proprio con l’editto con cui l’imperatore Qianlong invita la diplomazia britannica a porre fine, pena l’incolumità, al soggiorno in terra d’Oriente. Dopo quell’episodio, e nonostante i notevoli risultati di alcuni negoziati politici, la comprensione del «fenomeno Cina» ha quasi sempre gli stessi esiti. Esiti che, in anni più recenti, si connotano perfino di qualche sfumatura grottesca. È il caso della tanto celebrata «rivoluzione culturale» di Mao, che spinge quasi tutta l’intellighentia nostrana a interpretare la ricca e millenaria storia cinese come un semplice prodromo dell’«autentica attuazione del marxismo».
A questa incapacità di analisi non pare sottrarsi il più abile diplomatico americano del Novecento, Henry Kissinger, il quale, alla prima conferenza congiunta Cina-Stati Uniti, decide di definire il Paese che lo ospita come «terra misteriosa e affascinante». La risposta, affidata al capo di governo della Repubblica popolare Zhou Enlai, è lapidaria: «Quando lei conoscerà meglio il nostro Paese, si accorgerà che in Cina non c’è proprio nulla di misterioso». Ma il problema resta: se non è misterioso, almeno per buona parte della cultura occidentale, è così complicato da generare un’infinità di equivoci e fraintendimenti.
Stefano Cammelli, docente di storia contemporanea nell’università di Bologna, ha deciso di raccontarli e di smascherarli. Ne è nato un libro, Ombre cinesi (Einaudi, pagg. 266, euro 16,50), capace di differenziarsi dalla messe di studi e di pamphlet sul tema. La sua analisi non è una ricostruzione storica della civiltà cinese, né un trattato di geopolitica. Cammelli decide di soffermarsi sul problema identitario del Celeste impero, per poi smentirne alcuni dei principali stereotipi. Ecco perché buona parte dello studio è dedicato a personaggi e temi poco frequentati dalla pubblicistica occidentale, come quello della tradizione storiografica cinese e del suo più celebrato sacerdote, Sima Qian, vissuto tra II e I secolo a. C. sotto l’impero di Wudi. Ed ecco soprattutto spiegato il motivo che spinge lo storico ad affrontare i nodi della Cina attuale, primo fra tutti la libertà d’informazione e l’ostinata diffidenza dei cinesi nei confronti delle analisi di studiosi occidentali.
Scrive Cammelli che in Cina «le opinioni di un docente di Harvard sui rapporti col Tibet in epoca Qing non interessano perché il professore in questione, per colto che possa essere, non ha collocazione sullo scacchiere nazionale. Il professore di Harvard crede si stia discutendo di storia cinese; i suoi lettori cinesi lo leggono come se fosse un manifesto di politica americana (o di una delle possibili politiche americane) nei confronti del Tibet. Il primo crede si stiano valutando comportamenti passati, i secondi analizzando opzioni del presente».
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