L’anomalia semipresidenziale della Consulta

L’anomalia semipresidenziale della Consulta

Paolo Armaroli

Il 10 giugno dell'anno scorso, dopo averci pensato ben bene, Ciampi solleva conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti dell'allora ministro della Giustizia Castelli, contrario alla concessione di un atto di clemenza a Bompressi. Il perché è presto detto. L'ex capo dello Stato nel corso del tempo muta opinione e si convince che l'esercizio del potere di grazia spetti unicamente a lui. Con la conseguenza che la controfirma ministeriale non attesterebbe altro che la provenienza dell'atto e la sua regolarità formale. La Consulta a sua volta prende tempo. Con ogni evidenza vuole vederci chiaro. E alla fine si decide a decidere, a riprova che la prudenza non è mai troppa, solo quando i protagonisti della vicenda, Ciampi e Castelli, perdono le cariche ricoperte.
La Corte costituzionale dà sì ragione al Quirinale. Però il suo sì è seguito da un «ma» volto in qualche misura ad arginare l'effettivo esercizio di detto potere. Siamo in Italia, del resto. E nel nostro bel Paese le alternative secche da sempre piacciono solo agli eroi. Roma o morte? Macché. Convinti che paghi solo una terza via, c'è il caso che finiamo a Orte. Come sosteneva un bello spirito. Anche la Consulta, a ben vedere, si è comportata così. A scarico di coscienza, si capisce. Perché in realtà tutto congiurava contro la tesi che è stata accolta.
Remavano contro una consuetudine costituzionale ultracentenaria, i lavori preparatori della nostra Costituzione, due pronunce della stessa Corte costituzionale, l'ammissione nel 1991 di Cossiga e Andreotti che il Guardasigilli Martelli aveva le sue brave ragioni a considerare duale il provvedimento di clemenza. E poi la bocciatura da parte della Camera della proposta di legge Boato e dell'articolo 24 della riforma costituzionale che escludeva per alcuni atti presidenziali, tra i quali (guarda caso) quello di grazia, sia la proposta sia la controfirma ministeriali. Per non parlare di Ciampi, che in due comunicati del luglio e agosto 2003 aveva riconosciuto che l'atto di grazia si perfeziona con il concorso di volontà del capo dello Stato e del Guardasigilli.
E invece che ti fa la Corte? Premette che l'istituto della grazia è destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria. E, sulla scia di Mortati, riconosce in materia una potestà decisionale del capo dello Stato, quale organo al di sopra delle parti, rappresentante della sovranità nazionale ed estraneo al «circuito» dell'indirizzo politico-governativo. Ma qui la Consulta si contraddice. Perché da un lato sostiene giustamente che il governo in quanto tale non può considerarsi parte in causa. Dall'altro evoca a sostegno del proprio assunto l'indirizzo politico-governativo.
Ecco le conclusioni. Se il presidente della Repubblica sollecita il compimento dell'attività istruttoria o assume l'iniziativa di concedere la grazia, il Guardasigilli può solo rendere note al capo dello Stato le ragioni di legittimità o di merito che, a suo avviso, si oppongono alla concessione del provvedimento. In tal caso il presidente della Repubblica, se non le condivide, adotta direttamente il provvedimento, allegando nell'atto le ragioni per le quali ritiene di dover concedere ugualmente la grazia, malgrado il dissenso espresso dal ministro. È chiaro che il Quirinale dovrà agire con giudizio. Altrimenti la nostra forma di governo evolverebbe in senso semipresidenziale e il Colle potrebbe incorrere nella pubblica riprovazione.


A ogni buon conto, Napolitano ha subito istituito un ufficio grazie che non se ne starà con le mani in mano. Provvedimenti di clemenza in favore di Bompressi e Sofri, dopo tanto tira e molla, si avvicinano. Staremo a vedere se saranno gli unici figli dell'oca bianca.
paoloarmaroli@tin.it

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