L’arte di essere un incompreso

Un «Meridiano» ripropone l’autore de «La ragazza di Bube» che fu a lungo bistrattato da critici ingenerosi e colleghi invidiosi

L’arte di essere un incompreso

La vicenda letteraria e umana di Carlo Cassola mi sembra, a ripercorrerla oggi, di una struggente, esemplare malinconia. Quella di un uomo generoso e solo. Solo sino alla fine, quando, dopo l’ostracismo dato alle sue posizioni letterarie, si spese in battaglie politiche come quella antimilitarista - il «disarmismo» - votate alla sconfitta.
Nell’introduzione al Meridiano che Mondadori gli dedica (Racconti e romanzi, pagg. CXXXV-1890, euro 55) la curatrice Alba Andreini racconta come lo scrittore divenne «capro espiatorio» nella società letteraria del suo tempo. Espressione forte, quasi da martirologio, ma non inadeguata. Cassola era un autore di pagine d’ambiente provinciale, di soffuse analisi psicologiche, di memorie partigiane, essendo stato partigiano lui stesso; aveva già pubblicato Fausto e Anna e Il taglio del bosco quando, nel 1960, a 43 anni, fa uscire La ragazza di Bube, e diventa il romanziere più letto in Italia. Il cinema si impossessa della sua narrativa, e dà ai suoi personaggi una popolarità ancora maggiore. La vittoria allo Strega rende il professore di Grosseto ancora più inviso.
Lo attaccarono tutti. Ricevette gli strali di Pasolini, che in un discorso divenuto celebre lo accusò di lesa maestà ideologico-politica per aver ucciso il realismo. E subito dopo ricevette l’attacco demolitore dei rappresentanti del Gruppo 63, odioso perché fondato sull’insulto gratuito e pregiudiziale e sulla ridicolizzazione. Si disse che i romanzi di Cassola erano per signorine, lo si chiamò «la nuova Liala», venne appiccicato alla sua opera l’aggettivo «consolatoria», che a lungo suonò come il massimo del discredito. L’attacco fu così forte e impietoso e condotto militarmente che noi che eravamo studenti di Lettere negli anni Sessanta ci astenemmo in molti dal leggere Cassola allora, e poi finì che non lo leggemmo mai più.
Scrivendo queste righe sto dunque pagando un vecchissimo debito con l’autore toscano. E con Franco Fortini, che mi rimproverò una volta per il mio pregiudizio contro di lui. Avvicinarlo oggi dà una duplice impressione. Da una parte senti che talvolta la semplicità delle sue pagine ha qualcosa del bozzetto, qualcosa di radicato in una realtà che non esiste più. Senti che il suo linguaggio ha qua e là sacche di vuoto, lievi e inutili sdolcinature. Dall’altra, avverti la sua capacità non soltanto di creare paesaggi (basti per tutti il paesaggio di libeccio e di spiagge sabbiose all’inizio di Un cuore arido), ma anche di forgiare personaggi con una fisicità, una psicologia, una energia che sfida il tempo e arriva intatta sino a noi.
In La ragazza di Bube, la figura di Mara è una delle più belle figure femminili in cui ci si può imbattere nella nostra narrativa. La fidanzata del partigiano Cappellini Arturo detto Bube, è una giovane donna istintiva, vitale, ribelle, superficiale e nello stesso tempo fedele a se stessa e al proprio destino. La storia cui si ispirò Cassola era vera. Una storia di violenza nell’Italia dei giorni dopo la Liberazione, che vede scontrarsi partigiani, preti, marescialli dei carabinieri, sullo sfondo di un angolo stupendo di Toscana, Colle, Volterra, Poggibonsi.

Ma il cuore del libro è Mara, il suo oscillare tra un amore a portata di mano con il buon Stefano, e quello difficile, drammatico con il suo aspro fidanzato finito espatriato e poi in carcere, il suo sognare un paio di scarpe coi tacchi, il suo canticchiare il motivo dallo swing così struggente di Solo me ne vo per la città.
Non so se La ragazza di Bube sia un capolavoro. So che i suoi feroci detrattori di allora non hanno mai scritto neppure alla lontana un’opera riuscita, leggibile, incantata come questa.

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