L’educazione raminga di Wolfgang Goethe

Negli «Anni di viaggio di Wilhelm Meister» c’è il testamento spirituale del grande poeta. E la giovinezza eterna del suo spirito

Nel 1932 Thomas Mann tenne a Weimar un discorso celebrativo che verteva sulla carriera di scrittore di Goethe, nel centenario della morte. Lo iniziò con una bellissima descrizione dei gesti del braccio di Goethe moribondo in quell’alba del 22 marzo 1832: gesti che a lungo, pare, simularono quelli di uno che sta scrivendo, in aria, sulla coperta, prima che il braccio e la mano cadessero nella pace e nell’immobilità della morte. Mann cominciò il suo discorso da lì non a caso. Si propose di dimostrare che «è una mania davvero infeconda quella che vuol saputamente distinguere tra poesia e letteratura». Goethe fu poeta, letterato, drammaturgo, scienziato, regista teatrale, ministro di Stato, ma fu innanzi tutto «scrittore», nel senso che usò la scrittura per esprimere la straordinaria complessità e la vastità del suo mondo interiore.
A riflettere su Goethe scrittore, e romanziere in particolar modo, mi spinge la pubblicazione da parte di un coraggioso editore di una sua opera in prosa poco nota e spesso mal capita, che ha tutti i segni di una mirabile, grandiosa modernità: dico Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister (Medusa edizioni, pagg. 462, euro 29,50) curato con precisione appassionata da un poeta come Rosita Copioli. Goethe esordisce nel romanzo in maniera folgorante, con I dolori del giovane Werther, del 1774, una storia di amore infelice che fece ammalare di disperazione suicida i giovani più sensibili dell’Europa di allora. E che fece scuola, tanto che senza di esso il nostro Foscolo non avrebbe scritto quel piccolo capolavoro struggente che è Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Sono libri che conservano un tratto di eterna adolescenza, e che solo chi ha un’anima adolescente può apprezzare sino in fondo, cioè piangendo e delirando a ogni pagina.
L’opera narrativa più compiuta di Goethe è Le affinità elettive. Il romanzo è «la più profonda e più audace storia di un adulterio in tutta la cultura etica dell’Occidente», dice Thomas Mann. Ed è anche il romanzo che mostra la struttura più cristallina e perfetta della letteratura universale, mutuandola dalle leggi della chimica, e istituendo un fondamentale parallelismo tra i processi della materia e quelli dello spirito. Goethe crede nella continuità della spiritualizzazione della materia e della materializzazione dello spirito. Descrive le vicende che disciolgono la coppia formata da Edoardo e Carlotta alla presenza del capitano e di Ottilia con uno stile impassibile eppure tutto fremente, come se analizzasse pietre e cristalli invece che esseri umani, ma investendo ogni sostanza del soffio pieno, eterno, metafisico dell’umano.
Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister è un romanzo dalla forma e dalle intenzioni completamente diverse, se non opposte. È l’ultimo di Goethe, ed è l’ideale seguito de Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795-1796). Ma la figura del protagonista compare già in uno scritto della giovinezza che l’autore rifiutò e il cui testo fu trovato soltanto nel 1910. Al pari di Faust, Meister è una figura centrale dell’immaginazione goethiana, e nella trama avvolgente della sua inesausta simbologia, ricca come quella del Mozart del Flauto magico di echi di una illuminata massoneria spirituale, sta a indicare i gradi di un percorso iniziatico verso la conoscenza di sé e del mondo. Ma negli Anni di viaggio c’è una felicità teatrale, spettacolare, arguta, divagante, metastorica, che lo avvicina in qualche modo alla complessità del Faust II, coronamento dell’insieme della sua opera e suo lascito per il futuro.
Come scrive Rosita Copioli, è un mistero quello che sono sia Gli anni di viaggio sia il Faust II, e il romanzo ci appare come «una meravigliosa, svariatissima mescolanza sinfonica di storie dentro le storie, di interpolazioni, divagazioni e divertimenti, di allusioni, corrispondenze e specchi, come nel romanzo alessandrino o in Apuleio e Sterne». È proprio così. Chi apre queste pagine è preso nel gorgo di una fantasia compositiva che non segue un ordine né temporale né spaziale, che va e viene e ritorna su se stessa con una felicità e una libertà inaudite. È lo stesso romanziere, ci chiediamo, questo che abdica alla costruzione di qualunque trama e quello che ne aveva costruita una con la ferrea disciplina dello scienziato dell’anima nelle Affinità elettive? Che è lo stesso, ce lo dice dopo pochi capitoli la storia di Lucidor e Antoni e di Giulia e Lucinde, che mostra sia pure con toni di nuova leggerezza la dinamica dello scomporsi di due coppie e del loro ricomporsi in nuovi legami, cara alla vena etica dell’autore. Goethe qui racconta come se stesse intessendo i fili di un tappeto.
Comincia con il filo rosso della Bibbia, nella meravigliosa e misteriosa descrizione dell’incontro di Wilhelm e il figlio Felix con il falegname Giuseppe e la sua sposa Maria nella loro casa tra i monti. Poi per gli altri incontri, con il piccolo Fitz, quasi Ermes e demone, con Jarno che ora si fa chiamare Montan, esperto di rocce e cristalli, sceglie un filo mitologico, multicolore e capace di metamorfosi. Le storie di Lenardo e della brunetta, dell’«uomo di cinquant’anni», della nuova Melusina continuano a mostrarci quella spiccatissima tendenza alla fenomenologia della passione amorosa che c’è in Goethe, e che agisce di pari passo con la sua leggendaria carriera di amante intellettuale. Ma qui le passioni si stemperano nella saggezza, impersonata da Makarie, il cui archivio ci consegna aforismi di insuperata energia; e si stemperano nel gusto del pastiche e della divagazione, nello spirito tipico del Tristram Shandy di Sterne, di cui Goethe tesse un generosissimo elogio.
La leggerezza si addice ai grandi vecchi. Goethe, alla fine della sua avventura terrena, ama lo spirito di Yorick, lo stesso che poi amò Foscolo col nome di Didimo Chierico. Ma ai grandi vecchi è altrettanto cara la sapienza, giovinezza eterna dello spirito.

E, in questo libro enciclopedico e sapienziale, Goethe scrive: «Se uomini vecchi, stanchi della vita gridarono ai loro confratelli: “Ricordati di dover morire!”, noi più giovani, desiderosi di vita, possiamo, come ammonimento e conforto, ripeterci le parole limpide: “Ricordati di dover viaggiare!”».

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