L’enigma nascosto dietro uno sguardo timido

L’enigma nascosto dietro uno sguardo timido
«Non spingetemi! Ora basta, per favore non spingetemi». Una richiesta fatta con voce flebile, educata pur se comprensibilmente stanca dopo ore di interrogatorio. È forse questo l’unico ricordo tangibile di una reazione di Alberto Stasi. Di una reazione, insomma, almeno degna di questo nome. In precedenza ce n’era stata solo un’altra, un po’ più gridata, proprio la mattina dei funerali di Chiara, all’indirizzo dei cronisti che lo inseguivano. Un «andate al diavolo» peraltro comprensibile, considerati il giorno e le circostanze. Uno sfogo peraltro breve, bagnato dalle lacrime, rotto dai singhiozzi e subito rinchiuso dietro la portiera di un’automobile.

Poi basta, nient’altro. Perché al di là di questi due frammenti, del giovane studente di Garlasco fermato ieri con l’accusa di aver ucciso la fidanzata il 13 agosto scorso, la memoria visiva e quella cartacea fissata negli appunti rimandano sempre e soltanto la stessa immagine, diventata al tempo stesso sensazione. Monotona, monocorde, ripetitiva, come un disco incantato. Tanto fissa e immobile da risultare a volte addirittura poco umana. L’immagine interiore di un ragazzo ultratimido, così frastornato dal clamore di un evento tanto orribile da far venire più di una volta il rifiuto mentale a considerarlo un possibile protagonista; e quella fisica di un giovane incredibilmente pallido, dalla carnagione quasi translucida, così simile alla madreperla da temere che nella stretta dei cronisti potesse andare in frantumi.

Di lui resta soprattutto incancellabile il comportamento tenuto durante i funerali. Vestito di scuro, con una camicia blu chiusa fino all’ultimo bottone che faceva risaltare ancor più il candore assoluto della pelle, Alberto era rimasto quasi sempre seduto a capo chino, con il volto cristallizzato, più che impietrito, apparentemente incapace di declinare espressioni diverse da quella che aveva all’ingresso in chiesa. La stessa, del resto, «indossata» poi in tutti i lunghi giorni che sarebbero venuti, quelli degli interrogatori e delle indagini: sempre quello sguardo sfuggente, senza trasalimenti, due occhi fissi dove è difficile leggere, ombreggiati dalla zazzeretta bionda. Immobile anche, perfino quando lui corre via veloce.

Lo ricordiamo impassibile anche quando il parroco, don Giorgio Amiotti, sceso dall’altare e avvicinatosi alla prima panca per un abbraccio ai familiari di Chiara, lo aveva visibilmente «saltato», con un gesto peraltro spiegabile, ma che in quella circostanza era stato notato. Perché lui era lì, in prima fila, stretto nell’abbraccio e nel dignitoso dolore di Giuseppe e Rita Poggi, i genitori della fidanzata che lo avevano fermamente voluto accanto a loro e al figlio minore sotto la volta della chiesa della Beata Vergine Assunta.

Così come con loro - di più, quasi sorreggendosi a loro, a quelli che avrebbero dovuto diventare i suoi suoceri - il giovane aveva poi accompagnato il feretro fino alla sepoltura, nel cimitero di Pieve Albignola, dove aveva ricevuto da tutti i presenti un abbraccio corale e senza sospetti.

Una sensazione, quella della non colpevolezza del giovane, che del resto aveva retto a lungo e in modo diffuso, a Garlasco. In parte perchè forse il pacifico paese lombardo ha avuto da subito l’inconsapevole paura di trovare la risposta più sgradita alla domanda «chi è stato?», sperando magari in una pista che portasse al balordo di passaggio. In parte perché Alberto, a Garlasco, a conoscerlo fino in fondo sono in realtà in pochi. Sfuggente anche per loro. Anche per quelli di un piccolo borgo dove tutti si conoscono.
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