Un bilancio delle elezioni di due Paesi di lingua francese può cominciare, una volta tanto, con un neologismo spagnolo: «derechisacion». Lha coniato, un paio di mesi fa, un giornalista del quotidiano madrileno El Pais, come titolo dellanalisi di un politologo specializzato in «tendenze». In italiano lo si può tradurre soltanto, credo, con un neologismo ancora più brutto, «destrizzazione», ma descrive con sufficiente esattezza la direzione in cui muovono quasi tutti i Paesi europei in un momento particolarmente delicato per il Vecchio Continente. Lesempio più fresco e più noto è senzaltro quello della Francia, confermato dalle elezioni di ieri per lAssemblea Nazionale, che hanno ribadito il successo dellUmp, ultima sigla in un lungo elenco che accompagna da più di sessantanni gli sviluppi e la capacità di adattamento di quello che Oltralpe si chiama ancora gollismo. Il risultato ha confermato il successo di Nicolas Sarkozy nella gara per lEliseo di sei settimane fa e ha «corretto» le indicazioni di due settimane fa, quelle del primo turno delle legislative. Fedeli e sostenitori di Sarkozy hanno ottenuto una chiara maggioranza, non il plebiscito che sondaggi e opinione unanime avevano indotto qualcuno ad attendersi. La Francia resta un Paese bipartitico, i socialisti si sono ripresi dalla depressione seguita alla sconfitta di Ségolène Royal, sono crollati i comunisti fino a perdere il diritto a formare un loro gruppo parlamentare. Fra le prime conseguenze ipotizzate cè una «depersonalizzazione della politica francese», uno spostamento di interesse dal «culto» del nuovo inquilino dellEliseo alla solidità di impianto della sua parte politica, che gli assicura una maggioranza parlamentare per le riforme che egli si è impegnato a fare. Ma la tendenza in un contesto europeo, che è quello che qui ci interessa, è non solo confermata, ma anche resa più comprensibile e più «traducibile» negli altri linguaggi politici.
La costellazione di forze alla Camera di Parigi, per esempio, è più evidentemente simile a quella creatasi in seguito a un risultato elettorale molto meno seguito allestero, ma che è invece molto indicativo: la perdita della maggioranza in Belgio da parte della coalizione di centrosinistra (o social-liberale) che la deteneva da un decennio e uno spostamento a destra che consentirà, anzi imporrà il passaggio del timone al partito classico dei moderati di Bruxelles, i cristiano-sociali. Insomma, il centrodestra. Forse con la partecipazione dei socialisti nel ruolo di junior partner: di nuovo una conferma, perché è quello che è successo in Germania.
Risultati analoghi si sono segnalati negli ultimi mesi quasi ovunque nel nostro continente, non soltanto in quella «nuova Europa» che è uscita o sta uscendo dai postumi della tremenda esperienza del comunismo sovietico e neppure unicamente nei Paesi in cui la destra o il centrodestra hanno prevalso. Quello che è quasi assente nella geografia politica paneuropea è una convincente indicazione a sinistra. Come italiani conosciamo bene i limiti della microvittoria di Romano Prodi e dellasmatica coalizione che egli da poco più di un anno guida o incolla. Ma anche in Spagna Zapatero ha dovuto incassare gravi delusioni negli ultimi mesi e il suo Partito socialista viene ridimensionato rispetto al «picco» del 2004, il tempo di una sua vittoria a sorpresa unicamente dovuta alla disapprovazione per la guerra americana in Irak e allo choc per la strage perpetrata a Madrid dai sicari di Al Qaida. Ricordiamo che anche Gerhard Schröder deve il «regalo» del suo secondo quadriennio a un voto anti-Bush; ma in Germania, in Spagna, in Francia è passato il tempo in cui si potevano evadere i temi centrali delleconomia e della politica e montare intere campagne elettorali e di opinione pubblica sulla impopolarità personale di un presidente Usa. LEuropa si sta avvicinando a un bivio, uno dei tanti della sua lunga storia. Forse vi è già entrata.
Alberto Pasolini Zanelli
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