Il re Abdallah di Giordania ebbe recentemente a dire che se non si risolvesse la questione palestinese il Medio Oriente rischierebbe di diventare teatro di tre guerre civili: in Irak (dove già succede), in Palestina (dove una guerra di mafie camuffata da lotta di liberazione contro Israele sembra sul punto di trasformarsi in una guerra civile che tutti giuravano volere evitare) e in Libano (dove le manifestazioni di piazza rischiano di trasformarsi in teatro per esternare tutte le tensioni che bollono nella regione).
La situazione dopo gli ultimi scontri fratricidi fra milizie di Hamas e milizie di Al Fatah a Gaza e in Cisgiordania, sta diventando pericolosa perché tutti gli attori esterni interessati rischiano di essere sempre più coinvolti nel conflitto e trasformarsi da più o meno ipocriti «pompieri di pace» in impotenti spettatori di un incendio.
Non possono intervenire gli Stati Uniti, impegolati in Irak e da tempo incapaci di mantenere il loro lungo monopolio sul conflitto israelo-palestinese. Non può intervenire Israele, anche se è chiaro da che parte stanno le sue simpatie nel ginepraio palestinese; non possono intervenire gli hezbollah che da fornitori di armi e di ideologia ad Hamas non possono trasformarsi in combattenti contro Al Fatah a causa del controllo che Israele mantiene sul territorio palestinese. Solo possono alimentare il conflitto con le loro incendiarie trasmissioni radiotelevisive, senza possibilità di appoggiare il governo di Haniyeh in Palestina con azioni contro Israele. Non può intervenire il presidente dellIran che oltre a dover tenere conto degli umori elettorali in patria, non può portarsi a fianco di Hamas senza suscitare le reazioni della Giordania, dellArabia Saudita e dellEgitto. Questi Paesi cosiddetti «moderati» hanno finora sempre «pescato» nelle acque torbide della crisi mediorientale, convinti che la rivalità fra le mafie palestinesi potesse essere sempre deviata sul «parafulmine» israeliano.
Di fronte ad una vera e propria guerra civile in Palestina temono di essere coinvolti in prima persona in una lotta di interessi energetici, politici e religiosi che hanno molto poco a che vedere con Israele ma molto con la sopravvivenza dei loro rispettivi regimi.
La «mattanza» in Palestina cè sempre stata, mascherata dalla lotta, dallinvidia e dallodio ideologico contro Israele. Il pericolo ora è che questa lunga ipocrita lotta dettata da ragioni e colpe reali o inventate diventi, a causa della debolezza del presidente palestinese Abu Mazen e della corruzione delle istituzioni inventate da Arafat, loccasione per trasformare il radicalismo islamico di Hamas in pretesto per fare della Palestina, come dellIrak e forse nuovamente come del Libano, un campo di battaglie telecomandate dallestero; una guerra per la guida del mondo arabo fra sunniti e sciiti; per lutilizzazione politica delle enormi ricchezze petrolifere della regione; uno scontro che offre alla Russia di ridiventare attiva nei giochi regionali e ai vecchi imperi turco e persiano di riposizionarsi nei confronti tanto dellOccidente quanto dellOriente.
La posta in gioco in Palestina non è più quella di clan uniti dal loro odio settario e dalla speranza di distruzione di Israele. È un rischio che fa dellanarchia di Gaza una torcia capace di attizzare un grande incendio.
Se lEuropa, che avrebbe i mezzi e il dovere morale di contenere questo incendio e persino di spegnerlo, resterà come in passato a guardare addossando ad Israele tutte le responsabilità, non salverà con compromessi la pace ma, una volta di più come nella crisi cecoslovacca del 1938, neppure il suo onore.
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