Una lunga distesa azzurra che parte dal Portogallo, si spinge verso nord raggiungendo la Finlandia e si distende fino alla Bulgaria. Azzurro, il colore del Partito popolare europeo. Basta dare un’occhiata alla cartina per cogliere un aspetto che nella concitazione della notte elettorale nessuno ha rilevato. D’accordo, in Austria è cresciuta la destra radicale, come in Olanda e qui e là emergono sbuffi neri, come quelli del British National Party; ma si tratta di macchie di colore, che fanno titolo, ma non certo tendenza. Il dato che conta è un altro: in ben diciassette dei ventisette Paesi dell’Unione europea il Ppe è giunto primo partito per numero di seggi. E i titoli dei giornali sull’Europa che va a destra assumono, all’indomani del voto, un significato diverso, rassicurante: è la destra moderata che cresce, con straordinaria uniformità politica e geografica.
Il Ppe ha ottenuto la maggioranza relativa in tre dei quattro Stati più grandi (Germania, Italia, Francia), nonché in Spagna, grazie al riscatto di Mariano Rajoy, finora eterno secondo, e in Polonia, ma anche in quelli più piccoli come il Belgio e la Slovenia. Vola nella nuova e nella vecchia Europa, in quella agricola e in quella industriale. E se il dato sull’affluenza alle urne - ferma al 43%, minimo storico - resta sconfortante per la credibilità di un’istituzione sempre più lontana dal cittadino comune, questa straordinaria sincronia dimostra se non altro che esistono sensibilità condivise tra i cittadini europei, indipendentemente dal loro livello di benessere. Il divario economico tra la Germania e la Bulgaria resta abissale, ma alle urne gli elettori di questi due Paesi si sono comportati alla stessa maniera: di fronte alla crisi hanno scelto il centrodestra, il cui successo in realtà è ancora più ampio.
Sulla cartina è inutile cercare un Paese tinto solo di rosa. Non c’è. O meglio, uno sì: è la minuscola Malta. Altrove il Pse deve accontentarsi di un pareggio, perlomeno per numero di seggi. Le vittorie socialiste in termini percentuali sono risultate troppo risicate a Cipro, in Grecia e in Svezia, dove i progressisti hanno dovuto spartire il bottino con le destre moderate. Tre Paesi bicolore, rosa e azzurro, e in un quarto, la Danimarca, rosa e arancione, il colore del partito liberaldemocratico, che è andato benissimo in tutta Europa, e ha addirittura conquistato la maggioranza relativa nei Paesi Bassi e in Estonia.
In Lettonia hanno vinto i nazionalisti che aderiscono all’Unione dell’Europa delle Nazioni, un gruppo parlamentare che difende la sovranità dei singoli Paesi ed è ostile alle politiche d’integrazione comunitaria. In Gran Bretagna e nella Repubblica Ceca hanno prevalso i conservatori, che potrebbero fondare un nuovo gruppo parlamentare, blu ovviamente, mentre il rosso si assottiglia sempre di più.
Rosso fuoco, comunista o della sinistra radicale; nostalgici di Marx, che in un contesto di crisi avrebbero dovuto rafforzarsi. In passato la reazione degli elettori era quasi pavloviana: a un aumento della disoccupazione faceva riscontro uno spostamento verso le formazioni più profilate a tutela dei lavoratori. Quella di quest’anno è una crisi durissima, la peggiore dal 1929, ma i Partiti comunisti sono rimasti al palo.
Non seducono più chi ha perso il lavoro. Le loro ricette appaiono vuote, anacronistiche, non solo ad Est - dove chi ha conosciuto il comunismo non si lascia più ingannare - ma anche nei Paesi di quella che un tempo era l’Europa occidentale. In Germania, ad esempio, la Linke di Oskar Lafontaine è salita di un insignificante punticino al 7%, sebbene da mesi i politologi pronostichino una sua ascesa, in un anno elettorale che raggiungerà il culmine il 27 settembre in occasione delle politiche. Ma nemmeno lo scoppio della bolla finanziaria è bastato, finora, a dare slancio a Oskar, sebbene per anni abbia fustigato, in solitudine, l’avidità delle banche. In Italia i partiti della sinistra alternativa non hanno superato lo sbarramento, mentre in Francia continuano a presentarsi divisi, il che riduce il loro peso politico.
A Strasburgo il Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea scende da 41 a 33 seggi. Una legnata. «Colpa della nuova composizione del Parlamento, in cui il numero dei deputati è stato diminuito da 783 a 736», tentano di giustificarsi i leader. Ma il taglio colpisce tutti ed è pari al 6%, mentre la loro perdita è più consistente: 8 mandati, ovvero meno 20%. La sconfitta è innegabile. Ed è dolorosa.
Tra i progressisti solo gli ecologisti riescono a guadagnare seggi, passando dai 43 del 2004 ai 51 del 7 giugno. Merito soprattutto dell’exploit di Cohn-Bendit in Francia, arrivato terzo a un soffio dai socialisti.
Ma in Italia sono scomparsi, in Germania fermi, in Spagna ininfluenti. Non bastano i buoni risultati in Svezia, Finlandia e Belgio per delineare un movimento di fondo. Il Verde d’Europa, sebbene più intenso, non è ancora condiviso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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