L’ex leader di An vuole la buro-democrazia

Non c’è nulla da fare. Berlusconi e Fini parlano due lingue diverse ed è come se quel minimo di traduzione simultanea che permetteva ai due di dialogare si stia velocemente spegnendo.
Berlusconi vede un partito dove c’è spazio per le varie posizioni, ma che nei momenti cruciali deve sapersi muovere compatto, dove una volta scelta la linea da prendere non si torni al punto di partenza. Tutto questo nasce da una visione del mondo in cui la velocità è un valore uguale, se non superiore, alla forma. Il Cavaliere interpreta lo spirito del tempo, la necessità di bruciare i rivali con un’intuizione, una strambata, un azzardo calcolato al secondo. Se questo è il suo orizzonte è difficile fargli digerire i passaggi burocratici, le assemblee, i confronti del partito classico, quello in stile Novecento.
Quando Fini ieri, in un auditorium ad alta tensione, ha espresso i suoi dubbi, le sue preoccupazioni, su alcune punti poteva avere anche ragione. Ma le soluzioni che ha dato sono un ritorno al passato. Sanno di vecchio. Fini pensa che tutto si possa risolvere con una commissione sul federalismo fiscale, con una pila di documenti, con il confronto interno, con la dialettica delle correnti. La soluzione ai suoi mal di pancia è una sorta di «burocratizzazione della democrazia». È come se Fini, che da leader di An era molto berlusconiano, abbia riscoperto il passato. È un ripartire dalla prima Repubblica, dalla vecchia politica, quella che lui delfino di Almirante ha fatto da ragazzo. È la nostalgia del partito come perno della politica. È lì che ci si confronta, con la dialettica delle correnti, qualche volta sporca, con i «nuovi» colonnelli da tenere a bada e i notabili sparsi sul territorio, con gli intellettuali qualcuno d’area, qualcun altro di corte.
Fini vuole un partito «ideologico» ma senza ideologie. E anche questa in fondo è una scommessa. Cosa ci mette Fini in questo partito? Qui, i dubbi, sono tanti. Lui si muove da incursore, spiazzando spesso i suoi amici e i suoi elettori. Va a sinistra e cerca di occupare spazi di identità, ma si muove a casaccio, quasi da solo, senza rotta, senza mappa, senza futuro. Ha travasato An nel Pdl, ma in molti ancora si chiedono: con quale identità?
È questo il paradosso. Fini sogna un partito centrale, un laboratorio di idee e di politica, che indirizzi e disegni l’azione di governo. Qualcosa di rigido, che non si perda nel dopo elezioni. È un partito post berlusconiano, meno carismatico, meno di piazza, con un leader giovane ma vecchio stile. Un leader come lui. Il partito come mediatore, come catalizzatore, come risorsa intellettuale e politica.
Il sospetto è che questo partito gli serva soprattutto per sopravvivere come minoranza. È come una squadra di calcio che nei momenti di difficoltà ricorre al catenaccio. Càpita. Ma non ne farà mai, nel calcio post sacchiano, una filosofia di vita.

Il vecchio partito che Fini evoca è uno strumento tattico. Serve a spezzare il gioco di Berlusconi. Le «commissioni» sono come i terzinacci che marcano a uomo l’avversario. Qualche volta sono utili, ma non ne fai la bandiera democratica della tua guerra d’opposizione.

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