Nel dibattito televisivo tra Berlusconi e Prodi, con un passo avanti nel percorso «più Stato, meno Società», è stato affermato che chi è già appagato personalmente può impegnarsi in politica per organizzare la felicità altrui.
In questo campo, finora, l'affermazione più ardita era stata «dalla culla alla tomba», slogan con cui si descriveva il welfare inglese e scandinavo. Uno slogan andato in crisi non solo per vincoli di bilancio, ma soprattutto per l'impossibilità di politici, partiti e apparati statali di rispondere a una domanda di benessere quantitativamente cresciuta e qualitativamente sempre più diversificata.
Si pensi, ad esempio, alle scuole organizzate e gestite burocraticamente che peggiorano la qualità e mortificano la mobilità verticale. Proprio per questo in questi giorni, infatti, Blair ha concesso anche alle scuole pubbliche inglesi di trasformarsi in fondazioni con larga autonomia.
Così, dove non c'è competizione scientifica fra le università si mortifica la ricerca, e l'assenza di criteri meritocratici va a discapito della qualità, finendo per favorire i più abbienti.
Così pure, un'organizzazione centralistica della sanità provoca inefficienza, inefficacia, non equità di trattamento. Non per niente anche in questo caso il laburista Blair ha introdotto, nell'ultimo anno, quanto in Lombardia c'è da tempo: la libertà di scelta per il malato tra gli ospedali pubblici e tra quelli pubblici e privati.
Si constata che ogni qual volta politici e assistenti sociali pretendono di interpretare bisogni di persone e di famiglie, si finisce per imporre modalità di risposta e standard palesemente inadeguati ai veri bisogni e lesivi delle libertà personali e dei diritti elementari dei cittadini.
Si deve constatare, poi, che quando certa burocrazia statale o locale può gestire quantità ingenti di spesa pubblica, senza controlli di qualità e senza valutazione di impatto dei risultati, si genera una gigantesca rendita fatta di inefficienze e privilegi.
Ma denunciare queste forme di statalismo fa parte ancora di una normale battaglia politica, quella per affermare il principio di sussidiarietà orizzontale, una conquista fondamentale per il nostro Paese e per tutti i Paesi moderni.
Invece, voler organizzare la nostra felicità è un passo in più, per certi versi preoccupante. Felicità è una parola che si ha pudore a nominare di fronte alle difficoltà e alla fatica della vita concreta delle persone, che ha ragioni ben più profonde e personali che non le sole questioni economiche, sociali e politiche. Chi può pensare, allora, di poter organizzare la felicità di un individuo?
È questione di intelligenza e di rispetto dell'uomo l'ammettere di non essere in grado di dare risposta al desiderio profondo di felicità dell'uomo. Neanche la donna per l'uomo, i genitori per i figli, l'amico più vero può pretendere di rispondere compiutamente al desiderio di felicità: chiunque ami veramente sa di poter essere al massimo compagno dell'amato in quel desiderio irriducibile di felicità che lo costituisce. Perché la felicità ha a che fare con l'infinito che è in noi, quell'infinito con la i minuscola che chiunque sia leale e sincero con sé stesso vede in quel desiderio di vero, di bello e di giusto che costituisce il cuore più profondo suo e di ogni uomo. È quell'Infinito con la I maiuscola che una concezione religiosa individua come l'oggetto della ricerca di ogni uomo, a cui solo Dio può rispondere compiutamente, nella concezione cristiana, attraverso una compagnia quotidiana, concreta e carnale all'uomo.
Quando la politica supera i suoi limiti e pretende di organizzare non solo la culla e la tomba, ma anche l'uomo nella culla, l'uomo nel lavoro, l'uomo nella famiglia, e l'uomo nella tomba, c'è veramente da preoccuparsi.
* presidente Fondazione per la Sussidiarietà
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