L’odio cieco contro l’Amerika di Nixon

Ci sono antiamericani, dicono, e antiamericani. Ci crediamo, ci mancherebbe altro. Ci sono i critici dell’attuale presidente, numerosi per la verità anche negli Stati Uniti, e ci sono coloro che al sol sentir nominare America vedono rosso. Ad esempio uno dei massimi esponenti di uno dei partiti neo comunisti, di quelli che, fedeli a uno slogan che sembrava messo nel cassetto, «partito di lotta e di governo», fanno parte del governo Prodi e preparano una maxi dimostrazione ostile al presidente degli Stati Uniti che il mese prossimo si fermerà a Roma. E fra gli slogan, o peggio tra le giustificazioni di un’iniziativa non cortese ma in sé non illecita, ne adduce una che par proprio una voce dal sen sfuggita. Definisce Bush «anche peggio di Nixon». Al che i casi sono due: o parla a vanvera, oppure identifica veramente in Richard Nixon un predecessore di Bush alla Casa Bianca, ormai dimenticato dalle folle giovanili contestatarie, una specie di parametro del Male, qualcuno che è stato così pericoloso, cattivo e infame da trasformare per ciò stesso in ingiuria ogni paragone, figurarsi se negativo.
Ciò costringe chi possieda ancora un po’ di lucidità e di memoria a dettarsi sul taccuino due appunti su chi sia stato Nixon e quali le sue nequizie. Se Bush è «peggio di Nixon» ed è accusato soprattutto di essere un «guerrafondaio», se ne dovrebbe dedurre che anche Nixon lo è stato. Ebbene la sola guerra che troviamo nei sei anni della sua presidenza, stroncata da un piccolo scandalo domestico, è quella del Vietnam, che Nixon non aprì ma che invece chiuse. Non in termini gloriosi né troppo soddisfacenti per l’America, ma non è certo questo che muoveva allora e stimola oggi il vituperio di certe piazze europee. Il conflitto in Indocina se l’era trovato sulle mani e ci mise degli anni a districarsene. Lo fece gradualmente ma pervenne con il nemico a un armistizio che valse addirittura un premio Nobel per la pace al suo ministro degli Esteri Henry Kissinger, che tradusse in realtà le disposizioni della Casa Bianca dal momento che, mentre si trattava, le operazioni continuarono, Nixon si permise di condurre azioni militari sulle vie di comunicazione del nemico nelle foreste della Cambogia la cui neutralità era stata violata da Hanoi e non da Washington.
Negli altri angoli caldi del mondo Nixon intervenne, come capita prima o poi ad ogni presidente americano, nel Medio Oriente, di fronte a una guerra cominciata dall’Egitto contro Israele, da Israele condotta contro altri vicini e che aveva causato la prima grande crisi energetica del mondo. Nixon non mandò soldati ma pacieri, consultandosi sempre con gli alleati e con l’altra super potenza dell’epoca, l’Unione Sovietica. Il presidente «che peggio finora non ce n’è stati» raggiunse con Breznev un accordo, naturalmente imperfetto, che frenò la corsa al nucleare. Con l’altra grande potenza comunista, la Cina, Nixon ruppe il ghiaccio di decenni, inaugurando rapporti diplomatici e andando a far visita personalmente a Mao Zedong.
Questo per quanto riguarda la sua fama di «guerrafondaio». In politica interna non dovrebbe esserci bisogno di ricordare i progressi che la causa dei diritti civili per gli americani di pelle nera e le altre minoranze fece durante la presidenza Nixon, dagli inizi di integrazione scolastica, perfino all’introduzione delle «quote» minime per le minoranze. Fu Nixon ad abolire il servizio militare obbligatorio e fu durante la sua amministrazione, questo bisogna proprio sottolinearlo, che l’America si liberò, ahimé provvisoriamente, della sua macchia principale agli occhi del resto del mondo civile: la pena di morte fu messa fuori legge. Se poi è tornata è stato, purtroppo, per volontà popolare ma quando l’«uomo cattivo» era in esilio nella sua Sant’Elena di politico. C’era finito, naturalmente, per lo scandalo Watergate, in sostanza per aver cercato di proteggere un paio di attivisti del suo partito che, durante la campagna elettorale del 1972, avevano cercato di piazzare dei microfoni in un ufficio del partito concorrente, senza mai fare in tempo a ritirarli. Un «reato da pretura», riconobbero allora in molti; ma fu abbastanza per mandare a casa un presidente di riconosciuta abilità e, ci sarebbe dovuto essere scritto sui cartelloni, «di pace e di progresso».
La chiamarono invece Amerika, l’America di Nixon, sfogando un odio per cui c’erano davvero ben poche giustificazioni se non che chi lo gridava non perdonava all’America soprattutto una cosa: di essere l’antagonista dell’Unione Sovietica, il sistema che allora stava nei cuori di molti, in Occidente e soprattutto in Italia. Gli altri europei lo capivano anche perché Richard Nixon ci capiva meglio forse di ogni predecessore e successore.

Lo chiamavano, a casa, «l’europeo», e non era un complimento. Che adesso degli europei, e non degli innocenti imberbi, lo prendano a parametro del Male farebbe sorridere. E invece è soprattutto triste.
Alberto Pasolini Zanelli

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