Roma Commemorare Giovanni Falcone nel 18° della strage di Capaci è indubbiamente lodevole. Trasformare il magistrato siciliano nel totem della guerra alla politica in nome dell’autonomia delle toghe - come hanno fatto ieri il procuratore antimafia Piero Grasso, l’ex sindaco di Palermo Orlando e l’ex magistrato De Magistris, ora dipietrista all’Europarlamento - è invece altra cosa. Una forzatura ai limiti del brutale e una operazione in puro stile gattopardesco.
Perché tutto si può dire di Falcone. Tranne che non abbia avuto tra i suoi più feroci avversari proprio molti esponenti delle toghe che lo bocciarono a ripetizione forse anche perché nelle sue tesi di ammodernamento della giustizia non faceva mistero della convinzione della necessità di separare le carriere dei pm da quelle dei giudicanti.
È storia vecchia. Ma ogni anno - complice la commemorazione del suo assassinio - si prova a cancellarla con un colpo di spugna. «Celebrare il sacrificio di Falcone dovrebbe significare la garanzia della magistratura di poter operare in modo autonomo!» scandisce l’Idv De Magistris. «Difenderemo il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’indipendenza della magistratura dal potere esecutivo!» rincara Grasso, trascinando dietro di sé le componenti «progressiste» di Csm e Anm e buona parte dei politici della sinistra italiana.
Peccato abbiano dimenticato tanto di quello che pure si è scritto e si è letto sulla vita di Falcone. Dagli attacchi dell’allora sindaco Orlando al magistrato, a quelli di quotidiani della sinistra che lo incolpavano di non credere a certi pentiti o di aver fatto calare «una saracinesca nell’analisi sui rapporti tra politici e mafia», a quella lettera speditagli da tre giudici appartenenti alla corrente di sinistra (Magistratura Democratica) quando decise di trasferirsi al ministero allora guidato dal socialista Claudio Martelli, in cui gli si rimproverava aspramente «di apparire pubblicamente alle spalle del ministro, l’opera del quale rende credibile».
Persino la valanga di bocciature cui fu sottoposto dagli organismi dei magistrati viene direttamente inviata al dimenticatoio. Bocciato come consigliere istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm. Forse lo sarebbe stato anche come commissario antimafia se la morte non avesse preceduto il voto. E a ricordare questo ed altro non è un giudice di terza fila. Ilda Boccassini, nel ’92, in occasione della cerimonia nel Palazzo di Giustizia di Milano in onore di Falcone, prese il microfono ed alzò un dito accusatore verso i suoi colleghi: «L’avete fatto morire voi, con le vostre accuse, la vostra indifferenza, la vostra diffidenza». Parlò di organismi dei magistrati «ingessati e prigionieri di logiche di corrente». Di carriere divenute «un mercato» e della necessità di «fare autocoscienza, avendo il coraggio di dire che ci sono sacche di ignoranza, di scarsa produttività, anche di corruzione!».
Niente. Tutto dimenticato. Tutto buttato a mare. Oggi si vuol far passare Falcone - da parte della sinistra - come l’eroe della lotta alla politica che voleva tagliare le unghie alle toghe coraggiose. Come l’antesignano della mobilitazione che i giudici si accingono a varare contro il presunto soffocamento della loro autonomia. Quelli che erano artigli che si proiettavano ieri contro di lui, in vita, ora divengono braccia osannanti. Scordando quello che era il suo «credo». Come ha ricordato Giuseppe Ayala - giudice in Sicilia e poi parlamentare (tutt’altro che di centro-destra) - «Giovanni voleva pm e giudici divisi e lo diceva pubblicamente». Han provato a tacitare questa voce.
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