"L'amore dei tre re" ben diretto, e senza estetismi di cartapesta

"L'amore dei tre re" ben diretto, e senza estetismi di cartapesta
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La forte curiosità di sentire L'amore dei tre re, la violenta tragedia di Sem Benelli che tanta fortuna portò al suo autore, il veronese Italo Montemezzi, non è stata del tutto delusa. L'opportunità era offerta al Teatro alla Scala, dove l'opera fu battezzata col clamore del successo nel 1913, sotto le sapienti mani di un altro figlio dell'Adige, Tullio Serafin, primo e maggior sostenitore di quest'opera. Nell'arroventato clima che investiva l'opera italiana desiderosa di sposare l'estetismo dannunziano (Mascagni lavorava con il Vate alla Parisina; Zandonai trarrà il suo capolavoro dalla Francesca da Rimini), Montemezzi rivestiva il triangolo benelliano di sontuose vesti wagneriane. L'autorevole concertazione di Pinchas Steinberg ha stemperato parecchio quella torbida salsa nostrana, vuoi per non soffocare i cantanti, vuoi per sottolinearne una latenza non invadente. Certo, ci sarebbe voluto un basso protagonista all'altezza dei carismi passati, mentre il pur meritevole Evgeny Stavinsky (Archibaldo) ha messo quanto poteva in una lingua non madre. Ben impegnati con solida resistenza, gli amanti fedifraghi, Chiara Isotton e Giorgio Berrugi. Incolore il barone Manfredo di Roman Burdenko; ficcante Flaminio, Giorgio Misseri.

Prezioso l'apporto dei giovani dell'Accademia scaligera (Andrea Tanzillo, Fan Zhou) e del Coro scaligero nella composta funerale di Fiora al terzo atto, la pagina più tersa della ribollente partitura di Montemezzi. Regia che ha ben eliminato ogni riferimento all'estetismo di cartapesta, rendendo il castello di Benelli un interno alla Adolphe Appia. Pubblico smagato e rispettoso.

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