«Pensieri anche no» recita uno slogan pubblicitario. La via maestra è questa: non avere pensieri. A pensare ci penserà l'Ia. Verrà e avrà i nostri occhi. Porterà il nostro volto nel mondo; come una mamma scimmia col suo scimmiotto ci imboccherà parole in eschimese, in farsi, ci doterà di luminose idee in creolo, mentre noi ordineremo una pizza e qualcun altro penserà a farcela recapitare.
«E pensare che c'era il pensiero», recitava Giorgio Gaber. Tempi antichi, quando anche sul mangiare e sul bere valeva la pena ragionare un po', si fondavano associazioni sovversive fin dal nome («slow food») e si fondavano accademie dedicate non solo alla nutrizione ma al gusto, alla bellezza, alla cultura del mangiare e del bere. Tempi antichi.
Anche lì, pensiero. Tempo passato pensando. Occasioni gettate via per troppo pensiero. E allora via pure quello, spazio agli attori, a quello napoletano che ricorda Bud Spencer, a quello americano, al capellone, all'agente finanziario, al professore incazzoso. Gente televisiva, gente che fa audience, niente slow food, la competizione è regina, hai mezz'ora di tempo, diciotto minuti, sei minuti, quaranta secondi. E alla fine, per chi perde: via la testa. A che serve la testa? Perché mai pensare?
Perdere la testa è il titolo intrigante di una mostra che si è appena aperta a Milano, presso la galleria BKV di via Fontana 16, zona Cinque Giornate (fino al 20 dicembre). Se la letteratura ci ha offerto esempi supremi (Salomé e il Battista, Perseo e la Medusa, Davide e Golia, Giuditta e Oloferne), è stata l'arte a trasmettercene l'elettricità, la scandalosa attrattiva. Pensiamo a Caravaggio, a Géricault...
Sono dipinti e sculture tra Cinque e Seicento, con incursioni moderne (Martini, Testori, Guttuso Schnabel). Il tema è proprio questo, a questo si trova di fronte lo spettatore: teste mozzate.
Difficile dire: do un'occhiata e me ne vado. C'è un interrogativo che ci trattiene: perché queste teste tagliate ci affascinano? Che storia ci vogliono raccontare? Le vediamo perlopiù ben composte. Al pianterreno, dedicato alla decollazione del Battista, eccole beneducatamente appoggiate sul classico piatto d'argento, gli occhi chiusi, la bocca chiusa) per evitare lo sguardo dell'occhio morto, la ganascia maleducata della bocca che già chiama i vermi. A questo ci penserà Testori nei suoi due acquerelli, per ripristinare una verità che però trapela quasi sempre, qui un occhio semiaperto, lì uno spillone a serrare le labbra, là un rivolo di sangue scorre inavvertitamente sul braccio di Giuditta nella bella tela del Vermiglio.
In tutto questo c'è un simbolo, ma è un simbolo opaco. La testa di Medusa, tagliata, continua a uccidere. Durante la Rivoluzione Francese, con la guillotine si tentò un linguaggio lineare: non si decapitava per impedire di pensare (i rivoluzionari erano uomini di larghe vedute) ma per punire chi, già da vivo, aveva dimostrato l'inutilità della sua appendice capelluta. La Ragione in persona eseguiva le sue pietose sentenze.
Sentenze che, a proposito, sono dette capitali, vuoi che t'impicchino o fucilino o ti sbattano in qualche stanza maleodorante o ti facciano accomodare su quella sedia. O che ti facciano l'iniezione che è sì letale sebbene la pena resti capitale, come i sette vizi: perché ne va appunto di lei, della testa. Sempre, in ogni caso, qualunque sia la tecnica messa in opera. Le verrà impedito di sbraitare, di offendere, di lanciare slogan importuni, di diffondere notizie false o incontrollate, di dissentire, insomma di esercitare il pensiero. È vero, c'è chi pensa con la pancia, chi con il lato b, chi addirittura con i piedi, ma la lingua resta in bocca e la bocca è dentro la testa, che una volta tagliata ricaccia in gola la lingua, e così pancia piedi e lato b si tacciono, non parlano più, la biacca del silenzio ricopre le loro stupide parole (così saranno catalogate, a uso dei posteri). Ma la mostra di via Fontana ci dice anche altro. Se tutte queste teste sono giunte a noi, ben catalogabili tra classici, secenteschi, caravaggeschi, barocchi, giù giù fino a noi, è perché tutte le teste sono, in fondo, come quella della Medusa, e continuano a uccidere ben oltre l'attestato di morte.
L'infamia di Erodiade, la perfidia di Salomé, l'eroismo di Giuditta, il coraggio di Perseo, l'astuzia di Davide giungono a noi perché le teste che essi reggono come trofei non hanno smesso, in realtà, di parlare e di vedere. C'è una congiunzione, c'è un e che unisce vincitore e sconfitto, vivo e morto in un'unica realtà: Giuditta e Oloferne, Davide e Golia, Perseo e la Medusa. Solo per il Battista la storia è differente, la sua testa giace su quel piatto d'argento, e di Salomé, di Erode e della sua lurida consorte non gl'importa niente, non ha vendette da consumare, non ha parole da aggiungere a quelle già dette. Le sua parole sono ormai sulla bocca di un altro, che cammina libero per la Galilea e la Giudea.
Ma per le altre non è così. Per le altre l'ultima parola è comunque rinviata, le teste continueranno a parlare diffondendo un'infezione che può essere morte ma può essere salvezza. Si chiama Letteratura, un miracolo nel quale le sentenze vengono ribaltate, le teste riattaccate alle spalle, le lame ritirate, i tribunali sciolti e sostituiti. La Letteratura è questo: teste tagliate che non smettono di parlare e di raccontare la loro difficile verità.
Certo, se - come si ripete oggi - il non avere pensieri è quello che vogliamo, le ghigliottine diventano inutili.
A che serve tagliare una testa che non c'è più? Ma non è una buona notizia, perché anche in un romanzo, anche nel più ingegnoso dei romanzi, è ben difficile che una testa voglia riattaccarsi al corpo dopo che si era staccata da sola, senza asce né coltelli.
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