"Economia salvata dagli sbarchi": ecco la verità dietro l'errore della sinistra

La retorica pro-immigrazione spesso spinge sul dato economico. Ma questo impone di distinguere tra vari canali e competenze di chi sbarca

"Economia salvata dagli sbarchi": ecco la verità dietro l'errore della sinistra

La riapertura del caos migranti ha portato in Italia alla riproposizione di un dibattito annoso. Quello sul confronto tra posizioni politiche destinate a promuovere un contenimento dell'immigrazione clandestina e quelle che invece si definiscono più aperturiste, non facendo differenza tra quella clandestina e quella regolare. Uno dei temi che si sentono più spesso presi in considerazione sul fronte dell'immigrazione è, in questo secondo campo, il tema del contributo economico delle migrazioni all'economia nazionale.

Tale contributo c'è ed è evidente: LaVoce.info per esempio ha stimato i contributi del lavoro immigrato in Italia a 5 miliardi di euro di impatto extra sul gettito Irpef. Inoltre ha analizzato che gli stranieri residenti in Italia, comprendenti in stragrande maggioranza persone in età da lavoro, sono datori netti sul fronte del contributo alla previdenza e alla sanità e riceventi solo sul fronte scolastico. L'immigrazione regolare è un fenomeno che ben gestito, lo ha amesso anche il governo Meloni, è positivo per il Paese: lo sottolineano le scelte di prendere accordi con la Tunisia per dare il lasciapassare a 4mila lavoratori o i dati del ministero dell'Economia e delle Finanze di Giancarlo Giorgetti sul fatto che assimilare nel mercato del lavoro virtuosamente lo stock di immigrazione può dare spinta a una riduzione dello stock di debito pro capite.

Ma queste posizioni non possono e non devono essere il gancio per prendere posizione sull'emergenza in corso. Chiarifichaimo il concetto: nella vulgata pubblica spesso si sente parlare di un nesso diretto, alimentato soprattutto in campo progressista, tra le odierne ondate di sbarchi e la possibilità di avere manodopera impiegabile in lavori di bassa e media manovalanza. A novembre Repubblica sottolineava che i migranti in Italia sono troppo pochi "per i bisogni delle nostre imprese, della nostra agricoltura, delle nostre famiglie", riferendosi al ruolo decisivo oggettivamente giocato da molti lavoratori stranieri in settori come la raccolta ortofrutticola o l'assistenza domiciliare.

Ma pensare all'immigrato unicamente come al bracciante a rischio caporalato o alle colf non aiuta sul fronte economico né su quello umanitario. Economico, perché si rischia di ridurre l'immigrazione a un fenomeno funzionale alle due parole d'ordine di Emma Bonino, pronunciate in un'intervista a La Stampa nel 2020: "Serve manodopera". Umanitario, perché pensare strumentalmente all'immigrato solo come alle sue braccia e al suo contributo strumentale non valorizza certamente gli ideali di accoglienza in nome di cui la Sinistra si batte - o dice di farlo.

Il problema di fondo è che la Sinistra pensa al "migrante" in forma astratta, non alle storie umane che dietro l'immigrazione si creano. E si sviluppano anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno. Storie di ogni tipo, che vanno dal desiderio di affermazione sociale alla ricerca di ventura altrove, dalla fuga da un contesto diseredato alla semplice necessità di lasciare un luogo natio ritenuto non più vivibile. Pensare astrattamente ai "migranti" in quanto tali quando arrivano sulle nostre coste impedisce una riflessione a tutto campo.

Che per l'Italia può riguardare soprattutto i Paesi di provenienza massiccia dell'immigrazione, ma in generale qualsiasi movimento interessante il nostro Paese: fermi restando la priorità del "diritto a non emigrare" per i potenziali profughi, l'Italia può e deve sobbarcarsi la gestione dell'immigrazione solo se, nel rispetto di regole civili e sociali, chi arriva può in prospettiva contribuire alla società ma soprattutto emanciparsi da qualsiasi vincolo di subordinazione che la retorica di chi pensa ai migranti come ai raccoglitori di pomodori non spezza.

Di recente, a tal proposito, ha fatto molto discutere un editoriale del Nobel per l'economia Paul Krugman per il New York Times, in cui lo studioso storico esponente della "sinistra" del pensiero economico parlava della correlazione tra immigrazione e sviluppo economico negli Usa. Krugman nota che "secondo i dati del censimento Usa, il 79% dei residenti nati all'estero arrivati dopo il 2010 ha un'età compresa tra i 18 ei 64 anni, rispetto a solo il 61% della popolazione in generale. Quindi l'ondata di immigrazione ha probabilmente contribuito in modo significativo alla capacità dell'economia di continuare una rapida crescita dell'occupazione senza inflazione galoppante".

E per il contesto Usa c'è un dato di fatto reale, sottolineato dal Pew Research Center: i migranti di cui Krugman parla non sono solo i dipendenti del settore agricolo, ma anche e soprattutto quelli ad altissima professionalizzazione. Europei, indiani, cinesi e, in numero crescente africani attratti dalla "Terra delle Opportunità" e dagli alti salari in campi come l'ingegneria, il biomedicale, la ricerca, la finanza, che per il 30%, secondo Pew, si affidano su personale nato all'estero.

Un contesto completamente diverso da quello italiano ed europeo, soggetto alla "prima linea" di immigrazione del fronte mediterraneo e che deve necessariamente separare i due fronti. Quello, cioè, della gestione dei flussi di immigrazione non regolamentata a livello nazionale ed europeo e quello dell'apertura di canali all'immigrazione regolare capace di produrre risultati in termini di sviluppo per il Paese e i soggetti in questione. L'umanizzazione di un generico "migrante" serve a poco se poi non si differenzia tra i contesti e le necessità del Paese.

In prospettiva, la lezione degli Usa e di altri Paesi come il Regno Unito è che, ove possibile, l'attrazione di lavoro straniero ad alta intensità di competenze e conoscenze può essere un volano per lo sviluppo di sistema e mostra la capacità di un Paese di essere attrattore di capitale umano in forma virtuosa.

Ma parlare di generici "migranti" senza distinguere tra l'ingegnere indiano che dopo una lunga trafila arriva negli Usa e le persone spinte dal desiderio di sopravvivenza che attraversano il Mediterraneo verso l'Italia, non aiuta al governo del fenomeno in direzione del massimo benessere sociale. Che passa per trattare veramente, e non solo a parole, gli immigrati come umani a tutto tondo.

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