L'esuberante e irriverente duchessa Élisabeth de Gramont, protagonista della spumeggiante stagione delle Belle Époque e salottiero punto di riferimento della più spregiudicata intellettualità francese del tempo, non ebbe mai l'opportunità di conoscere Pierre Loti il quale, a quei, tempi faceva letteralmente impazzire la Francia con romanzi intrisi di esotismo e di cerebrale erotismo. Nei suoi deliziosi Souvenirs du monde, la «duchessa rossa» così era chiamata per certe simpatie politiche racconta di non aver mai incontrato Loti e di non averne neppure mai sentito il desiderio: «è un usignolo: avete voglia di parlare con un usignolo? No, ascoltatelo». Ma poi aggiunge con una battuta lapidaria: «Loti ha dato alla lingua francese un rinnovamento ch'essa non aveva più conosciuto dopo Chateaubriand. Le sue frasi corte e melodiose m'iniziarono al fascino degli stati nostalgici, piuttosto rari nei francesi».
A prescindere dall'amore che il pubblico mostrava per i suoi libri, Loti rappresentava davvero qualcosa di atipico nella «repubblica delle lettere». Più che uno scrittore sembrava, lui stesso, un personaggio da romanzo. A cominciare dal nome, che ovviamente non era affatto quello vero, ma del protagonista di uno dei suoi più celebri romanzi, Le mariage de Loti (Il matrimonio di Loti), ambientato nell'isola di Tahiti, nel quale si narra dell'amore fra una bellissima adolescente del luogo per un tenente di vascello la cui nave faceva scalo nell'isola per alcuni mesi. Il racconto, che ha un evidente registro autobiografico, svela come al tenentino venisse imposto, durante la cerimonia nuziale, quel nome, evocante un fiore orientale, perché le officianti, una bella principessa di sangue e due ancelle, non riuscivano a pronunciare, senza dover fare deturpanti smorfie, i suoni duri del suo vero cognome.
Loti si chiamava, in realtà, Louis Marie Julien Viaud (1850-1923) ed era nato a Rochefort, una cittadina a una trentina di chilometri da La Rochelle, da una famiglia di solide e austere radici ugonotte. Ma lui fu tutt'altro che praticante, nella migliore delle ipotesi agnostico. La sua vita è stata ricostruita da Lesley Blanch in una splendida biografia dal titolo Pierre Loti. Ritratto di un fuggitivo (Medhelan edizioni, pagg. 472, euro 30), scritta col gusto e il sapore della grande tradizione biografica inglese alla Litton Strachey, e che si legge, essa stessa, come un romanzo appassionante.
Come suggerisce il titolo, Loti fu, sempre e davvero, un fuggitivo. Dall'ambiente nel quale era nato, per esempio, e anche dalla prospettiva di diventare, secondo i desideri familiari, un piccolo «uomo qualunque», che, avrebbe detto in seguito, «non corrispondeva al mio tipo». La stessa scelta della carriera in marina fu a ben vedere e al di là del suo amore sviscerato per il mare una scelta di evasione: una scelta, però, indovinata che lo portò ad essere presente in situazioni storiche importanti, dalla guerra franco-prussiana del 1870 alla rivolta dei Boxer all'alba del Novecento fino a certi teatri d'operazioni della Grande Guerra.
Viaggiò in tutto il mondo, dall'Europa all'America, dall'Africa all'Oriente Medio ed Estremo, dalla Persia all'India, dalla Cina al Giappone e via dicendo, in luoghi cioè che divennero, per lui, teatro di avventure sentimentali e scenario di storie vagamente autobiografiche. I suoi romanzi ne scrisse una quarantina e i libri di viaggio e di saggistica riscossero un successo incredibile perché rispondevano, per un verso a certo sentimentalismo di maniera condito con un pizzico di erotismo e trasgressione, tipici dell'epoca, e per altro verso strizzavano l'occhio a quella moda, esplosa come vera e propria irrefrenabile passione, per tutto ciò che sapeva di esotico e di «primitivismo» alla Gauguin.
Il mondo della cultura ufficiale pur riconoscendogli il dono di una prosa elegante e raffinata, innovativa nella sua linearità e capace di evocare atmosfere non lo amava. Edmond de Gouncourt, per esempio, commentò nel 1883 la pubblicazione di Mon frère Yves con una battuta velenosa: «che bel libro sarebbe, se non ci fosse affatto del romanzo, in questa monografia sul mare!». Del resto, Loti, anche nel comportamento bohèmien e stravagante con quella passione per il trucco e per i travestimenti in abiti che evocavano terre lontane e sconosciute finiva, com'è naturale, per urtare sensibilità moralistiche e pregiudizi borghesi che allignavano negli ambienti dell'alta cultura. La «stravaganza», osserva la Blanch, è «la chiave del carattere complesso di Pierre Loti» che si manifestava attraverso un continuo bisogno di «evasione» del quale i numerosi «travestimenti», cui egli indulgeva, erano, in fondo, precise manifestazioni. Il che è probabilmente vero, ma non è da escludere che a tale «stravaganza» sia da ricollegare certo complesso di inferiorità per la sua timidezza e per la sua statura.
Quando lo conobbe nel 1884 all'epoca era ancora il signor Viaud Édmond de Goncourt si trovò davanti, vestito in borghese, «un uomo di bassa statura, delicato, magrolino, con gli occhi profondi, il naso sensuale e una voce con un che di moribondo, come quella di un malato»: un essere «taciturno, come un uomo terribilmente timido» al punto che bisognava «strappargli le parole». Anni dopo, nel 1895 Loti era al culmine della notorietà l'impressione che egli ne ebbe non fu molto diversa: «Un'assai triste figura, questo Loti, con il suo gran naso, la pelle grigia, l'avara parola, e la sua voce senza timbro. La paura di perdere un centimetro della sua statura che lo fa restare all'impiedi. Con una mano appoggiata alla spalliera di una poltrona, lo fa rassomigliare a un tetro uccello dal piumaggio malato».
Eppure questo «stravagante Loti» divenne amico e frequentatore di importanti (e influenti) intellettuali: per esempio, fra un viaggio e l'altro era ospite frequente di Alphonse Daudet, il celebre scrittore provenzale autore di Tartarino di Tarascona, solito invitare a cena la crème dell'intellettualità del tempo. Daudet aveva un debole per Loti perché fin da bambino aveva desiderato di diventare marinaio e letterato, per cui nell'autore del celebre Pescatore d'Islanda vedeva la realizzazione della carriera che, da bambino, aveva sognato per sé.
Fu proprio in una delle serate a casa Daudet che, quasi per scherzo, venne lanciata la candidatura di Loti all'Académie. Questi, venuto quella sera «in grand'uniforme» per assistere alla prima di un dramma di Daudet, si era trattenuto a cena. Durante il convito si parlò della successione di Émile Augier nello scranno numero tredici dell'Académie Française: i candidati, si sapeva, erano numerosi, a cominciare da Émile Zola. A Edmond de Goncourt venne la «subdola idea di gettare negli accordi già stabiliti» la candidatura di Loti che ne era consapevole avrebbe prodotto «lo stesso effetto di un piede poggiato su un formicaio» e generato grande «scompiglio» nella gerarchia marittima per l'«anomalia di un tenente di vascello accademico». Loti disse «ingenuamente» che si sarebbe presentato ma non sapeva come fare e allora Daudet gli scrisse la minuta della lettera di presentazione. Con grande stupore per alcuni e con altrettanto grande scandalo per altri, finì che Pierre Loti entrò a far parte degli Immortali.
La biografia dedicatagli da Lesley Blanch, scrittrice e viaggiatrice, come Loti amante dell'Oriente, pur seguendo i canoni tradizionali e l'andamento cronologico della vita del protagonista è quasi un viaggio
sentimentale alla scoperta di uno spirito inquieto, avventuroso e bizzarro, di un provocatore intellettuale, ma anche di uno scrittore smagliante, a torto, forse, messo da parte nel secondo dopoguerra. E merita di essere letta.
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