Non è solo il Parlamento, con le sue maggioranze incerte, il luogo dove si conducono le battaglie sui temi etici e i nuovi diritti. La frontiera su cui si combatte in modo più cruento, dove in gioco ci sono i corpi e le vite umane, è quella degli ospedali. La figura professionale del medico, negli ultimi cinquant'anni, è cambiata: dal grande clinico che interrogava e auscultava il malato, fondando la diagnosi sull'esperienza e l'unicità di ogni caso, si è passati alla rassicurante obiettività delle analisi, alla neutralità dei protocolli basati su probabilità e grandi numeri. L'informazione sulla salute è dilagata, facendo apparire spesso le innovazioni tecnologiche come risolutive, ma alla fine il nodo su cui ancora si gioca il successo di ogni terapia è il rapporto con il paziente: sono concetti oscillanti come la deontologia e l'umanità del singolo medico, che restano il nucleo forte della relazione di cura.
Mentre il Paese discute di eutanasia e accanimento terapeutico, di eugenetica e aborto tardivo, nelle strutture sanitarie le pratiche mediche sono già andate avanti, a volte assecondando l'orientamento dei pazienti, a volte invece sollecitandone il consenso. In questo processo che crea nuove sensibilità o vi si adegua, la politica rischia di arrivare in ritardo, a cose fatte. Rischia di ignorare quello che davvero accade, e di scoprirlo in modo improvviso, sotto l'urto di un evento sconvolgente e rivelatore, come quello di Careggi. Il caso del bimbo di 22 settimane abortito per una malformazione inesistente, e che forse, se assistito con più tempestività, avrebbe potuto sopravvivere, ha scoperchiato le pentole, messo a nudo la verità.
La legge 194 sull'interruzione di gravidanza è diventata un simulacro, un feticcio politico intoccabile in linea di principio, ma sempre più svuotato di senso nella pratica concreta. La prima parte della legge, quella sulla prevenzione, non è mai stata applicata, e se qualcuno cerca di realizzare forme di solidarietà per le madri che vorrebbero avere il loro bambino, si grida allo scandalo. Così è stato per le ragionevoli proposte del prof. Giorgio Pardi, primario alla clinica Mangiagalli di Milano, che chiedeva una collaborazione più stretta con i volontari dei Centri di aiuto alla vita. Oggi, dice Pardi, la maggioranza delle donne che si presentano ad abortire è composta da giovani immigrate, che sarebbero ben felici di tenersi il figlio se potessero contare su qualche aiuto. Ma questa semplice constatazione ha innescato furiose polemiche su un presunto attacco degli antiabortisti alla legge 194. Intanto, in almeno 7 regioni italiane, e in particolare in Toscana, si consente l'uso della pillola abortiva Ru486, senza che vi sia nessun protocollo autorizzato dall'ente di controllo dei farmaci. Un metodo abortivo più lungo, doloroso e rischioso, come è quello chimico, viene promosso da alcuni consigli regionali, in barba alla legge e senza nessuna garanzia per la salute delle donne, solo perché scardina dall'interno la normativa sull'interruzione di gravidanza. È il percorso già seguito con successo in Francia, dove la diffusione della Ru486, e quindi dell'aborto a domicilio, ha costretto alla fine il Parlamento a un intervento di adeguamento legislativo.
Se la prima parte della legge 194 è ignorata, l'articolo 6, che consente l'aborto tardivo solo quando la malformazione del feto provochi alla donna gravi problemi psichici o fisici, viene interpretato con larghezza eugenetica; così accade che si abortisca per un labbro leporino, un piede con sei dita, una patologia lieve o una malformazione operabile (la stessa atresia dell'esofago diagnosticata al bimbo di Careggi è risolvibile per via chirurgica nel 97% dei casi). Oggi si scopre che viene sistematicamente violato anche un altro articolo della legge, quello che vieta di interrompere la gravidanza quando il feto abbia già sviluppato possibilità autonome di sopravvivenza, a meno che non sia in pericolo la vita della madre. Nell'ospedale San Camillo di Roma, alle donne che si sottopongono a un aborto tardivo è chiesto di firmare un «consenso informato» nel quale si domanda di non rianimare il feto nel caso sia ancora vivo. È evidente che una volta venuto alla luce il bambino ha diritto a tutte le cure possibili, e che stabilire di non soccorrerlo non ha niente a che fare con la libera scelta della donna e con il consenso informato: si tratta di omissione di soccorso, o di vera e propria eutanasia.
Chi è, allora, che attacca la 194? Chi è che la vuole stravolgere, magari senza nemmeno passare dal Parlamento, ma grazie a linee guida, consensi informati, regolamenti ospedalieri? Quella sull'aborto è una legge che cerca un buon punto di equilibrio tra l'autodeterminazione della donna e i diritti del nascituro, tra la tutela della vita e la riduzione del danno. Se la si vuole davvero difendere bisogna impedire che nella prassi quotidiana venga deformata e male interpretata, ignorata o addirittura violata.
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