Una legge contro la schiavitù nelle fabbriche cinesi

Oggi, come è accaduto ieri e come succederà anche domani (non per tutti, purtroppo, perché in molti di loro mancheranno all’appello), otto milioni di cinesi si sono svegliati che era ancora notte in uno dei 1.422 laogai sparsi in 28 delle 31 province del Paese più popoloso del mondo. Si chiamano così, con il suono musicale, quasi innocente di questa parolina, le aziende-lager dove un giorno sono stati rinchiusi arbitrariamente e dove da allora lavorano senza paga, tra inaudite torture, violenze gratuite e privazioni di ogni tipo. Perdipiù in condizioni di sicurezza inesistenti e maneggiando spesso materiali pericolosi. Così per diciotto ore al giorno, 365 giorni all’anno, tutti gli anni, fino a che non arriva - benedetta lei, quando arriva! - la morte.
Ora, per combattere questa vergogna, sulla falsariga del Tariff Act statunitense (esiste dal 1930 ed è stato ulteriormente rafforzato nel 1984) anche l’Italia pare decisa a darsi finalmente una legge tesa a vietare l’importazione e il commercio di quei beni che sono prodotti con il lavoro forzato di masse di disgraziati prigionieri. Si tratta di un progetto vivaddio bipartisan, firmato da 15 parlamentari di ogni colore politico, che è stato presentato l’altro giorno nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, a Firenze. «La nostra non è una iniziativa contro la Cina - precisa Toni Brandi, presidente della Logai Research Foundation Italia Onlus (la casa madre ha sede a Washington) -. Ma abbiamo deciso di batterci in difesa dei diritti di milioni di detenuti cinesi».
Si sa che quei cancelli della vergogna, mantenuti ininterrottamente in attività da tutti i governi della Repubblica popolare comunista (chiamiamola con il suo nome) fossero stati ideati e subito realizzati da Mao Zedong - un Grande Criminale spacciato da una Storia miope come il Grande Timoniere - allo scopo di rieducare tanto i riottosi avversari della Rivoluzione quanto gli incurabili scettici di quel suo libretto rosso infarcito di sesquipedali cazzate. Si sa ancora che di lì sono entrati negli anni complessivamente 50 milioni di cinesi. E che ne sono usciti ben pochi.
Infine si sa, o quanto meno è legittimo immaginare, che prima di varcare quei cancelli anche gli attuali otto milioni di povere creature lì detenute avessero un volto. Anzi, otto milioni di volti. Di uomini qualunque e di bambini, di donne e di monaci tibetani, di preti cattolici e di dissidenti del regime. Ora, dove sono, non hanno più né un volto né un nome, per non dire della dignità! Sono diventati carne da Pil, da prodotto interno lordo, il borioso gallone da Expo internazionale cucito sui baveri dei loro aguzzini.
Assieme a tanti cadaveri, da quei cancelli escono ogni giorno milioni e milioni di prodotti Made in China a bassissimo costo (quello che danno lì alla vita!) e già imballati ed etichettati per prendere subito le vie del mondo. Articoli tessili, giocattoli, macchinari, aggeggi elettronici fabbricati con il sangue degli innocenti e utilizzando spesso veleni a noi ignoti. Roba che viaggia sui tir, sugli aerei e sulle navi, varca gli oceani, supera le dogane e arriva sui banconi dei nostri negozi per finire poi nelle nostre mani e in quelle dei nostri bambini. Un inarrestabile fiume di robaccia che fa impennare i tassi di crescita cinesi, ne gonfia il volume dell’export e manda nel contempo a remengo le economie occidentali che si «ostinano» invece - le anime belle! - ad avere il rispetto sacrosantamente dovuto sia di chi lavora sia di chi compra.
Rispetto che senza forse le medesime atrocità perpetrate nei laogai cinesi è peraltro del tutto assente anche nelle loro migliaia di repliche attive in territorio italiano, specie nell’area di Prato.
I dati sono quelli - allarmanti - raccolti da una giornalista del Sole 24 ore, Silvia Pieraccini, nel suo libro «L’assedio cinese». Oltre il 95% delle locali imprese cinesi è fuorilegge e vi lavorano gratis migliaia di braccia che ripagano così chi li ha introdotte illegalmente in Italia. Un flusso continuo di disperati che si calcola abbia portato a trentamila unità (contro i 18mila cinesi regolari residenti in zona) i clandestini nell’area pratese.
Un’umanità sommersa e invisibile - carne da Pil anche loro - che scandisce la propria miserabile esistenza quotidiana in anfratti oscuri, tra macchine per cucire, umide brandine, cibo avariato e colonie di scarafaggi.

E quegli stessi anfratti vomitano ogni giorno sul mercato un milione di capi d’abbigliamento, per un giro d’affari da due miliardi di euro nel 2009. Il 50%, si calcola, è in nero. Mentre a noi italiani, che sappiamo e che spesso chiudiamo gli occhi, resta soltanto il rosso. Quello della vergogna.

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