Legge elettorale, quelle sinergie tra Camere e Colle

Paolo Armaroli

L'articolo 3 dello Statuto albertino recitava: «Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere: la Camera dei deputati e il Senato del Regno». Il successivo articolo 7 stabiliva che il re solo sanziona le leggi e le promulga. E l'articolo 56 prevedeva che «Se un progetto di legge è stato rigettato da uno dei tre poteri legislativi, non potrà essere più riprodotto nella stessa sessione». Con la sanzione il monarca sabaudo si configurava come il terzo braccio del potere legislativo. Poteva avallare o colare a picco le deliberazioni parlamentari. Ma, ecco il punto, non era legittimato a emendarle.
Sulla carta un potere enorme, quello del sovrano. Fatto sta che la sanzione rappresentò poco più che una formalità. Tanto è vero che in Italia si è avuto un solo caso di rifiuto di sanzione. La circostanza si verificò nel 1869 su un disegno di legge che accordava la cittadinanza a tutti gli italiani non regnicoli. Un padre della Patria come Vittorio Emanuele II avrebbe potuto abusare del suo potere. Ma, fatto salvo il caso richiamato, si astenne dall'interferire nel procedimento legislativo. E la cosa si spiega. Perché con l'affermazione della forma di governo parlamentare la sanzione costituisce la regola e il rifiuto di essa una rarissima eccezione. Mentre con la promulgazione il re attesta l'esistenza della legge.
La nostra Costituzione repubblicana ha sottratto al capo dello Stato il potere di sanzionare le leggi. In compenso gli ha conferito la prerogativa di non promulgare una legge affetta da palese incostituzionalità e di rinviarla alle Camere per una nuova deliberazione. Ma, una volta approvata di nuovo dai due rami del Parlamento con o senza le modifiche suggerite dal Quirinale, quest'ultimo dovrà promulgarla. Tale schema non è stato sempre rispettato a puntino. Intendiamoci, il presidente della Repubblica è per eccellenza il magistrato di persuasione e d'influenza. E fin dai tempi di Einaudi non ha mancato di consigliare e mettere in guardia chi di dovere. Ma da un po' di tempo in qua si è affermata una sorta di anomala concertazione tra Quirinale e Parlamento. Con il risultato che quella sanzione uscita dalla finestra ai tempi dello Statuto è rientrata dalla porta in età repubblicana. E con gli interessi. Difatti il capo dello Stato, e da ultimo in special modo Ciampi, talora ispira lui stesso articoli e commi.
Sia chiaro, in qualche caso è meglio prevenire eventuali incostituzionalità che reprimerle. Ma certa stampa, evidentemente digiuna di diritto costituzionale, pretenderebbe di coniugare la botte piena con la moglie ubriaca. Il caso della riforma elettorale è emblematico. Dopo che la Camera ha accolto puntualmente i rilievi del Quirinale, la sullodata stampa non esclude che Ciampi rinvii alle Camere una legge da lui stesso avallata. La pietra dello scandalo sarebbe soprattutto il premio di coalizione previsto al Senato su base regionale, secondo una indicazione dello stesso Ciampi. E questo perché esso non assicurerebbe una maggioranza certa in entrambe le Camere. Ma si tratta di un problema politico e non costituzionale, che può nascere con qualsivoglia sistema elettorale. Del resto, chi ha cercato la chiave del rebus non l'ha trovata. Insomma, non è venuto a capo di nulla. Zagrebelsky non ha offerto alcuna soluzione. Manzella ha proposto di togliere il premio al Senato, secondo quanto prevedeva la legge elettorale maggioritaria del 1953. Pasquino vorrebbe elevare il premio.

Mentre Barbera, dopo aver perorato la causa del premio regionale al Senato in sostituzione di quello nazionale originariamente previsto, si è fatto promotore di un appello ai senatori denunciando tra l'altro l'incongruità del suddetto premio. Il guaio è che chi si firma è perduto. Ma non tutti, purtroppo, lo sanno.
paoloarmaroli@tin.it

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