Siamo nella primavera del 1918 il sergente Julien Vertou è seduto su una panca a fumare. Guarda verso il Monte Grappa e pensa a quota 1087, dove si è combattuto maledettamente. «Quanto ho sparato in questi anni si chiede». Lui guardando non vede solo le Alpi. Lui viene dalla Legione straniera, sta al comando come graduato di collegamento con le forze francesi. Ha combattuto nelle montagne dell'Atlante, in Marocco, ha un nome francese ma parla perfettamente italiano, anche se nella Legione una nazionalità non la si ha, il passato brucia. È diverso da quegli alpini che vede combattere e morire su quelle montagne. È un duro, lo dice anche la cicatrice che ha sulla mano. Eppure, le loro voci, le loro storie lo riportano indietro. Al prima...
Per sedici anni è stato una macchina di morte nella Legione: una sola logica, uccidere per non essere ucciso. Ma ora tutto lo riporta al prima. Questa è una guerra diversa e quei ragazzi che sanno a malapena tenere in mano un fucile gli ricordano chi è stato prima di andarsene per sempre, gli ricordano la sua valle. E così gli ultimi mesi di guerra in cui viene catapultato diventano qualcosa di profondo e straziante che va oltre la ferocia del tritacarne, nel rapporto tra il sergente con la divisa francese ma una storia italiana e il capitano Maglioli si gioca una metamorfosi.
La ferocia del fronte apre un inaspettato e doloroso percorso di rinascita. Tutto questo accade in Il pendio dei Noci (Mondadori, pagg. 246 euro 19) di Gianni Oliva, dove lo storico usa la sua grande conoscenza della Grande guerra per creare una storia profondamente umana.
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