La Lendinara di Cibotto patria del genio pittorico

Nella città veneta capolavori di Tiepolo, Fetti e Dossi. Fu lo scrittore morto da poco a rivalutarli

La Lendinara di Cibotto patria del genio pittorico

Tanti, troppi anni fa (ma io sono rimasto lo stesso), curai l'edizione critica di un raro volume del Settecento: Del genio de' lendinaresi per la pittura di Pietro Brandolese, «stampato in Padova nel 1795». Il libro è sofisticato, per le particolari attenzioni di Mario Cavriani con la sua associazione culturale Minelliana. L'idea, entusiasticamente accolta, non fu sua ma di Gian Antonio Cibotto, lo scrittore curioso e appassionato di ogni reliquia veneta, originario di Lendinara, felice di rinnovellarne il genio, morto il 12 agosto scorso. Non c'era dubbio che la prospettiva del Brandolese e la sua corrispondessero al vero, per molti versi: per ciò che a Lendinara si originò e per ciò che artisti gloriosi lasciarono nelle chiese e nei palazzi della città.

Cibotto era arrivato come un vento benefico in casa nostra, a Ro, al confine tra le province di Ferrara e di Rovigo, vicine in linea d'aria ma infinitamente lontane per il solco che le separava, il grande fiume, il Po. Nei primi tempi, per arrivare da noi, avrà attraversato il Ponte di chiatte, dolosamente cancellato per un ponte nuovo di cemento armato, che non riduceva la distanza psicologica tra i due mondi. Ma il suo, quello veneto, lo ritrovava nella personalità e nella sensibilità di mio padre, nato come lui nei primi anni Venti, poco lontano da Lendinara, a Badia Polesine. Ritrovava non solo sensibilità, gusto e lingua, ma anche epica memoria comune, avendo entrambi vissuto l'esperienza terribile e umanissima dell'alluvione del Po (di cui Cibotto ci diede le memorabili Cronache). Temperamento felino, pronto ad apparire e ancor più ratto a sparire, con il suo cappello storto e il suo mezzo sigaro, Cibotto fece in tempo a vedere le spettacolari eruzioni del carattere polemico e fiero di mio zio Bruno Cavallini, di Santa Maria di Codifiume, al confine tra Ferrara e la Romagna, temperamento foscoliano, ammirevole e spaventevole, così lontano dal suo conversare insinuante e sussurrato, denso di malizie e di risentimenti, ma alquanto generoso di riconoscimenti e considerazioni per scrittori, attori, registi, artisti e amici.

Il mondo di mio zio, come il mio, era animato da scontri, polemiche e sfide; il mondo di Cibotto era pieno di calie, di intese segrete, di ammirazioni, di complicità. Di ognuno, di cui benissimo conosceva i difetti, raccontava, con qualche pettegolezzo affettuoso, i meriti e i talenti, portandoci davanti vivi anche i morti e i remoti: da Memo Benassi a Luchino Visconti, da Cesco Baseggio a Lino Toffolo, da Mario Soldati, cantore del suo Po dalle sorgenti piemontesi al delta, a Roberto Rossellini, da Eugenio Montale a Cesare Garboli, da Umberto Saba a Giuseppe Ungaretti, da Vittorio Cini a Giorgio Bassani, da Alberto Moravia a Goffredo Parise, da Antonio Delfini a Pier Paolo Pasolini, tutti incontrati, intervistati, frequentati, in lunghe stagioni romane e nell'amata Tuscia, a Vetralla, dall'amico Giovanni del Drago, principe da lui trasferito nel mito, di aristocrazia, di solitudine e di gloria. Cibotto, dai giorni dell'alluvione aveva visto tutti con una frenesia assolutamente insolita rispetto al tipo di autore, da lui coltivato, dello scrittore misogino e ritirato. Teatro, premi letterari, maggiori e minori, commercio con grandi baroni, imprenditori, politici (osservati con diffidenza), potenti (con Mario Valeri Manera fondò il Premio Campiello, con gli industriali ferraresi, da lui rianimati, il Premio Estense) e i primi letterati italiani, e non solo, da Carlo Bo a Riccardo Bacchelli, a Dino Buzzati e alla sua Almerina, a Tommaso Landolfi, a Andrea Zanzotto, e gli uomini di cinema, da Michelangelo Antonioni a Federico Fellini, a Florestano Vancini, a Tinto Brass, a Dino Risi, a Luciano Vincenzoni (inventore dell'indimenticabile Signore e signori), a Rodolfo Sonego. Con tutti esibendo la sua identità veneta come valore universale, con l'orgoglio del Ruzzante, di Goldoni, del Petrarca di Arquà, fino a Neri Pozza, a Giuseppe Berto, a Fernando Bandini, a Sergio Saviane. Di ognuno conservando ricordi particolari, esclusivi, testimonianza di coltivate amicizie, una miniera di esperienze mondane che non lo avevano contaminato. Con il suo piacere per la conversazione, si trovava bene con le donne, tenute a debita distanza, con le quali condivideva parole e non vita. Nelle memorabili battute evocava contesse dotate di grandi palazzi e ville, pronte ad ospitarlo, devote e innamorate, perché «in cento metri quadri il pensiero è difficile». Amava i miei paradossi nelle relazioni con fanciulle, belle e subito perdute: «la conoscenza è nemica dell'amore».

Entrò così in famiglia, riscontrando quelle caratteristiche che aveva indicato Carmelo Bene: «La mia avversione per la famiglia esclude un'eccezione riservata a casa Sgarbi: sono un po' tutti pazzi, vivaddio, ma è un nucleo (quel che conta) di persone, dico persone che, vincolate da reciprocità affettiva, vivono una rarissima autonomia individuale». E mentre si intendeva, allo sguardo, con mio padre, e guardava, a prudente distanza, le imprevedibili eruzioni di mio zio, aveva trovato un'intesa sentimentale ed emotiva con mia madre e con mia sorella: la prima caratterialmente disponibile all'amicizia, la seconda introversa e curiosa del mondo letterario. E così acquisimmo un parente, che arrivava con costanza e capriccio. Si stabilì a Ro una vera e propria officina letteraria tra scrittori e registi di passaggio, da Umberto Eco a Valerio Zurlini, Luigi Carluccio, Francis Haskell, Philip Pouncey, Marcel Brion, Alain Elkann, Federico Zeri, Giorgio Soavi, Paulo Coelho, ai giovani scrittori Edoardo Nesi, Roberto Pazzi, Andrea De Carlo, Giancarlo Marinelli, Dario Franceschini, ante ministrum natum. Celebravano questi incontri monsignor Cibotto e il vescovo Andreose, e mio padre taceva e osservava, mia madre interloquiva con determinazione, e mia sorella acquisiva titoli per la casa editrice Bompiani, che oggi si è rigenerata nella sua Nave di Teseo, sulla quale, purtroppo, Cibotto non è salito.

Nascono così le provocazioni che si fanno miei libri sulla sua terra. Prima: Rovigo. Le chiese, l'inventario di tutte le opere d'arte della città con importanti capolavori veneziani e ferraresi, pubblicato da Marsilio, dell'amico e ultimo editore puro, Cesare De Michelis; poi, da me curato, Del genio de' lendinaresi. Quella denominazione, apparentemente esagerata, corrispondeva al vero. Proprio così. Viaggiando a cavallo, alla fine del Settecento, il Brandolese con il suo amico cavalier Giovanni de Lazara, «ispettore delle pubbliche pitture, nel circondario di Padova», vide con crescente emozione opere sconosciute, così come io feci quasi due secoli dopo con Gian Antonio Cibotto, sulla sua Mini minor, per ricercare capolavori dimenticati. Lendinara appariva un luogo magico e geometrico, dove si erano formati artigiani di genio, più che artisti, Cristoforo e Lorenzo Canozi, interpreti della sublime «metafisica» di Piero della Francesca in tarsie lignee, la cui spazialità allude alle piazze desolate di de Chirico, ispirate a Ferrara, dove Piero aveva a lungo lavorato. Ed erano stati i Canozi a rubarne idee e pensieri con tale intelligenza da potenziare come teoremi i principî della prospettiva.

Il genio è anche quello del maestro solitario, conosciuto per una sola opera vista dal Brandolese nella chiesa di San Francesco a Lendinara, e ora nel duomo di Santa Sofia: Domenico Mancini, affine di Giorgione. Una bella tavola, con la Madonna con il Bambino in trono, protetti da un muro, firmata e datata 1511. L'artista matura, con particolare intimismo, un'idea di Giovanni Bellini nella pala di San Zaccaria a Venezia, ma, ai piedi della Madonna, un animoso e accalorato angelo ha fatto pensare a un intervento del ferrarese Dosso Dossi, grande romantico. Anche lui (o un suo vicino) non manca a Lendinara, con la armoniosa Visitazione di San Biagio, in un idillio luminoso di paesaggio incantato nella tersa luce di una primavera padana. Nel duomo ci attende anche un potentissimo Ecce homo, come non mai dolente, di Domenico Fetti. Il quadro più grande, il più importante, è il drammatico Martirio di Sant'Agata di Giambattista Tiepolo che è purtroppo, dopo la soppressione del convento, con sommo cruccio di Cibotto, migrato a Berlino. Cibotto sentiva la ferita al seno della Santa, confortata da un'ancella pietosa, come una sua amputazione; ritrovava nel suo pallore marmoreo il proprio, ravvivato dal sangue della ferita.

Con me, felice, ha ripercorso il suo Polesine: a Fratta ha rivisto le ville palladiane, la Badoèra e la Avezzù, e ha contemplato i teleri del più grande tra i rari pittori nati nella provincia, Mattia Bortoloni, nella parrocchiale, con le sculture mirabili di Giovanni Maria Morlaiter; a Crespino ha scoperto i dipinti del Garofalo e del Gandolfi e del Sordino nella chiesa sul Po, proprio dove cadde Fetonte, e le Eliadi, sue sorelle, si trasformarono in cipressi per piangerlo.

Oggi piangono anche Cibotto nel suo folle volo. Nel libro del Brandolese rileggo la mia dedica: «A Gian Antonio Cibotto nel quale rivive il genio dei lendinaresi».

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