L'invenzione dell'Italia moderna, di Giulio Bollati (Bollati Boringhieri, pagg. 195, euro 24), ripropone, a un decennio dalla sua prima uscita, il volume che era in realtà l'accorpamento di altri due saggi precedenti, quello su Leopardi e quello sul cosiddetto illuminismo italiano, nonché alcune pagine su Manzoni e Alfieri, pubblicati quando il suo autore era ancora in vita. Nato nel 1924, morto nella seconda metà degli anni Novanta, fondatore della casa editrice che porta il suo nome, figura di primo piano dell'Einaudi, Bollati resta una figura di spicco della cultura dell'Italia repubblicana. Sempre suo è quel L'italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, uscito ancora negli anni Ottanta, ovvero il tentativo di delineare un idealtipo di italianità, permeabile al trascorrere dei secoli eppure dagli stessi in fondo mai veramente scalfito.
Il risvolto del libro, che si rifà all'introduzione di Alfonso Berardinelli, definisce il pensiero di Bollati «degno di entrare nel novero dei classici senza tempo». Il suo aver individuato nella cosiddetta «diversità» e/o specificità italiana, le ragioni della nostra difficoltà «a entrare nella modernità senza remore né pregiudizi», risulta ancora oggi, ovvero a un secolo dalla nascita, e avendo sott'occhi l'Italia di oggi che poi, «passano i decenni, passano i secoli è l'Italia di sempre», di straordinaria attualità.
Eppure più che attuale e insieme senza tempo, la miglior definizione di Bollati sembra essere quella di inattuale e in realtà fuori del tempo, a partire dal fatto d'aver cercato le ragioni dell'oggi nella storia di ieri, un modo di riflettere che nella nostra epoca dell'istante e dell'eterno presente suona tanto bizzarra quanto surreale. Basta citare i nomi dei pensatori intorno ai quali Bollati si interroga, Verri, Giordani, Confalonieri, Muratori, perché l'italiano moderno, che è senza memoria, si agiti spazientito davanti al televisore dove è in corso la canonica rissa catodica intorno a come vada declinata l'Italia contemporanea, che, sembra di capire, dev'essere antifascista, ma si può anche considerare postfascista, solo in taluni casi afascista, ma mai anti-antifascista e intanto si è fatta notte e se ne riparlerà domani, con altri ospiti, ma con la stessa musica di fondo.
Si osserverà, di sfuggita, che è curioso come nell'arco di nemmeno mezzo secolo, quando cioè Bollati elaborò la sua visione critica, temi che allora avevano ancora diritto di cittadinanza culturale, il Risorgimento più o meno tradito, deluso o incompiuto, la Questione meridionale e il divario Nord-Sud, l'industrializzazione del Paese, il peso e il ruolo della classe intellettuale, il trasformismo di quella politica, siano stati espunti dal dibattito politico, ammesso che da noi esista un dibattito politico, dal confronto ideologico, ammesso che da noi esista un confronto ideologico...
Quel che però ci sembra più interessante, tornando al libro e al suo autore, è che l'inattualità di Bollati è strettamente legata alla sua idea dell'Italia e del processo unitario che la vide protagonista, processo per lui sbagliato e rispetto al quale ne predilige un altro, di impianto nordico, illuminista e settecentesco, scientifico e all'insegna del progresso, di cui resta difficile comprendere la praticabilità, per non dire la concretezza. Non che Bollati non ne sia consapevole: «Il fallimento del tentativo illuministico di unificare teoria e pratica, economia e moralità, verità scientifica e valore estetico in un disegno finalizzato alla crescita della società, non è evidentemente da addebitare soltanto ad ostili, maldestri avversari». C'è che dietro di essi c'era una concezione ancor più elitaria e minoritaria di quanto non fosse quella che poi porterà il Risorgimento a compimento: si trattava di nobili «disposti a collaborare con i ministri austriaci ma non a cancellare ogni distanza sociale dagli uomini di lettere che in teoria avrebbero potuto essere i primi destinatari» del loro pensiero riformista, «ma che di fatto erano gli ultimi». In sostanza, dietro quel tentativo illuminista c'era «un vuoto di cui è difficile misurare l'estensione».
Per uscire dall'impasse di voler fare l'Italia prescindendo da che cosa l'Italia fosse, vecchio vizio che da quell'illuminismo settecentesco lombardo-piemontese caro a Bollati giunge per li rami a quel radicalismo del Partito d'azione animato da nobili propositi quanto schifato dall'idea che gli «italioti» ovvero la maggioranza degli italiani, volessero dire la loro, Bollati arriva a teorizzare l'idea del «Risorgimento come una sorta di malattia infantile, necessaria ma venuta troppo tardi rispetto alla storia europea entro cui si manifestò, e quindi causa anche di scompensi e di perdite che nessuna boria delle nazioni e nessuno ottimismo storicista riusciranno a cancellare». Ne deriva che sarebbe stato meglio avere prima il progresso, l'alfabetizzazione e i conti economici in ordine e poi, magari con calma, l'indipendenza e l'unità, un Risorgimento moderno, europeo e insomma comme il faut, ma così dalla storia siamo passati all'utopia e non è il caso quindi di continuare.
L'inattualità di Bollati trova ulteriore linfa nel fatto che alcuni degli intellettuali da lui più amati, e su cui a lungo si sofferma, vale a dire Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni, erano del tutto estranei e persino ostili a quella modernità da lui così fortemente difesa, nella sua forma di progresso così come nella sua forma di utile. Ciascuno a suo modo, cercano una risposta alla decadenza dell'Italia che non ha nulla a che fare con le quotazioni della borsa, le riforme, il commercio... Leopardi è un antimoderno, nonché uno spregiatore del progresso, «le magnifiche sorti e progressive» e dell'utile, mistificazioni che avvelenano ulteriormente il corpo sociale. Quanto a Manzoni, è un seguace di Vincenzo Cuoco, realista, per nulla interessato a trapiantare in Italia rivoluzioni altrui... In realtà, proprio perché sprofondata in una decadenza plurisecolare, ciò che si sarebbe dovuto ricreare in Italia era una società civile che di fatto non esisteva più, il suo posto essendo stato preso da una «classe dei colti» che si limitava alla difesa dei propri privilegi cortigiani.
Sulla figura dell'intellettuale, Bollati coglie un aspetto importante, sottolineato del resto da Berardinelli. La scissione fra arti meccaniche, ovvero pensiero e pratica scientifica, e arti liberali, osserva, favorisce «il germogliare di un altro tipo intellettuale che chiamerò in senso lato radicale. Il radicale si erge in atto di sfida contro il principe, cioè contro il potere, in nome della libertà di cui è missionario». Il suo ultimo prodotto, conclude, «dura tuttora magari in forme di titanismo gauchiste. Si batte, poniamo per le garanzie legali e per i diritti civili; ma non prestando alcuna attenzione alla macchina economica, rischia di trovarsi costantemente spiazzato rispetto alle trasformazioni reali».
Più che di una scissione, l'impressione è in questo caso quella di un corto circuito all'interno del progressismo stesso o, se si vuole, di un processo dialettico di tesi, antitesi e salvifica sintesi dove scienza e coscienza si scambiano giudiziosamente le parti, ma è sempre lo stesso intellettuale a incassare i dividendi. Teorico del progresso e fustigatore della morale. Non la propria, quella altrui. In questo l'Italia dei colti è rimasta la stessa.
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