Il lessico epistolare di Manzoni fra gelsi e balbuzie

Uno degli sketch più brillanti intorno alla vita del Manzoni lo racconta Carlo Dossi nelle Note azzurre, azzurro capolavoro della letteratura nostra

Il lessico epistolare di Manzoni fra gelsi e balbuzie

Uno degli sketch più brillanti intorno alla vita del Manzoni lo racconta Carlo Dossi nelle Note azzurre, azzurro capolavoro della letteratura nostra. Si dice che Manzoni, «essendo terzo in una conversazione che si aggirava su un tema astruso», diede ragione, con la stessa sussiegosa intensità, a entrambi gli interlocutori: perfino al «suo nipotino» che lo rimproverava, «gran papà, te ghe daa reson a tutt e duu». Il Dossi cala l'asso filosofico: intorno a certe questioni la vittoria non è mai di uno solo, gli «opposti... possono parimenti aver ragione». A noi resta l'idea del genio della sprezzatura del Manzoni, uomo troppo verticale, vertiginoso, per occuparsi dei fatti mondani, che ammantava le diatribe tra i suoi simili con una sorta di cupa compassione. Personalità inestricabile, di elusivo fascino, Manzoni ha fomentato fior di romanzi; il più bello lo ha scritto Mario Pomilio, s'intitola Il Natale del 1833, vinse lo Strega quarant'anni fa: leggetelo.

Per penetrare nel cuore cifrato di Manzoni, però, la via più chiara è quella di assaggiarne le lettere, ora antologizzate da Alessandro Zaccuri - autore, tra l'altro, l'anno scorso di un bel romanzo manzoniano, Poco a me stesso, edito da Marsilio - come Io ti ho a scrivere cose sì strane (L'Orma, pagg. 64, euro 8). La rassegna, naturalmente, non svela Manzoni: non c'è miglior mentitore di chi scrive lettere. Le menzogne, però, spesso sono più belle della claustrale verità: la potenza linguistica - quella c'importa - è micidiale. Così, c'è il Manzoni «Oratore Cattolico» che nel 1809 scrive a Pio VII «per consentire il battesimo della primogenita Giulia» e il Manzoni «fattore» che allo zio Giulio Beccaria, nel 1819, descrive il «vivajo di circa 800 gelsi innestati» a Brusuglio; c'è l'artista che chiacchiera, nel 1821, con Goethe, «uomo avvezzo all'ammirazione d'Europa»; il penitente che si rivolge al «Veneratissimo» Antonio Rosmini; il marito distrutto che a Leopoldo II di Toscana, nel febbraio del 1834, invia un'agiografica lettera intorno alla morte di Enrichetta («nell'ultima ora, avendo chiesto d'esser mutata da una positura penosa, soggiunse: non per ischifare il dolore, ma perché il dolore m'impedisce di pensare al bel passo che son per fare»); il marito ritrovato che informa Teresa Borri, nel 1852, di una sua visita, «singolarissima», a Siena. E poi c'è il padre - austero e distratto -, il senatore che si scherma («sono balbuziente», dice a Emilio Broglio), lo scrittore in bolletta. Uno, dieci, centomila Manzoni. A leggere le lettere, pare d'inseguire un Minotauro.

D'altronde, I promessi sposi è romanzo ambiguo e tentacolare quanto il suo autore. Ci trovi «il sorgere e il tramontare del sole... l'amore, la smania per le riforme» ma anche «la rassegnazione» e «la vanità del tutto». Giudizio del Dossi, condanna del Manzoni: lo scrittore che ha divorato il mondo.

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