Cari padri, ce la faremo. Ma solo se torneremo uomini (alla faccia del gender)

In "Ce la caveremo, vero, papà? Sì, ce la caveremo" (Cantagalli), Lorenzo Rizzi ripercorre il problema della crisi della virilità. Ma, soprattutto, offre agli uomini spunti per riconquistare forza e coraggio

Cari padri, ce la faremo. Ma solo se torneremo uomini (alla faccia del gender)
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C'è una richiesta che i nostri figli ci fanno, più o meno consapevolmente, ogni volta che ci guardano. Ce la faremo a fare canestro? Ce la faremo a imparare a scrivere? Ce la faremo a crescere? Ce la faremo a superare le difficoltà? Insomma: ce la caveremo? Sì, ce la caveremo. Prima insieme, con papà e mamma, e poi da soli. Sicuramente ci saranno insuccessi, dolori e sconfitte. Ma ci sarà sempre un modo - anzi: troverete sempre un modo - per reagire di fronte alle difficoltà. Vi abbatterete, forse. Ma sarà solo per un attimo perché riuscirete a trovare la forza per farcela. Ve la caverete dunque, soprattutto se avrete accanto a voi un padre. Il grande assente, come l’ha definito Claudio Risé, del nostro secolo.

Quella paterna infatti è una figura che, da qualche centinaio di anni, si cerca di deridere e di eliminare (il povero Luigi XVI, sovrano e quindi padre della Francia, ci ha rimesso la testa), ma che è fondamentale. Il padre - anche se è una tesi difficile da affermare oggi, dove spesso si grida senza alcun motivo all’allarme patriarcato - rappresenta l’autorità. Scrive Lorenzo Rizzi in un bel libro pubblicato da Cantagalli e intitolato Ce la caveremo, vero, papà? Sì, ce la caveremo (340 pagine, 20 euro): “Auctoritas viene dal latino augere, cioè far crescere. Autorità pertanto è la capacità di far crescere un figlio”.

È infatti il padre a portare i figli nel mondo. A insegnare loro che la vita è bella perché è rischiosa. A essere coraggiosi e non pavidi o temerari. E questo il padre lo fa fin da quando i figli sono piccoli, come testimonia il più classico dei divertimenti paterni: prendere il pargolo e lanciarlo in aria (per poi riprenderlo). Non c’è paura. Né nell’uomo né nel piccolo. In quel volo i due si guardano. Il primo è sicuro, il secondo si sente sicuro nonostante il rischio. Perché i bambini, maschi o femmine che siano, hanno bisogno di una guida forte che li porti nel mondo. E che mostri loro che ci si può esporre al rischio di essere feriti per un bene più grande.

Il problema è che, prima di diventare padri, bisogna diventare uomini. E questo non è affatto facile, soprattutto in un momento storico in cui si cerca di annientare le differenze sessuali con strambe teorie sul genere. Scrive giustamente Rizzi: “Andare alla ricerca del padre obbligatoriamente ci porta sulla strada della virilità maschile, sul terreno dell’aggressività che è la declinazione maschile della forza proiettiva, e nel recinto della forza protettiva, e ci fa scoprire come queste caratteristiche siano lo standard maschile”. Parlare di padre ci costringe quindi a parlare innanzitutto di uomini e affermare che questi portano in sé e con sé una forza che va gestita per dare frutto. È un cammino, che implica una trasformazione. Un cambiamento, un cammino. Afferma Rizzi: “La virilità, per elicitare ulteriormente questo essere del maschio, si esprime nell’aggressività, termine derivato dal latino ad-gredior che letteralmente significa andare verso. Si esprime quindi in quella forza che spinge l’uomo ad esplorare il mondo, ad affrontare l’avventura, a compiere ed intraprendere azioni ardite, a misurarsi nello sport, anche a competere e confrontarsi con gli altri”. Ma non solo. L’aggressività, per non diventare brutalità, deve essere messa al servizio di qualcosa. Anzi di qualcuno. Meglio: di chi si ama. Giustamente nota Rizzi: “Altra caratteristica della virilità è l’istinto di protezione, che viene donata all’uomo in funzione della paternità: l’uomo compie, esprime nel miglior modo, la sua virilità, cioè il suo essere maschio, diventando padre. La vasopressina è l’ormone che può essere paragonato al cavaliere sul cavallo bianco, favorendo cioè nell’uomo la galanteria e la monogamia, lo rende aggressivamente protettivo e difensivo del proprio territorio, della moglie e dei figli. Il segno per eccellenza della virilità maschile è la croce formata da due braccia: il braccio orizzontale è la combattività, esprime l’aggressività con la quale il maschio va incontro all’altro da sé; il braccio verticale è la protezione che può sussistere unicamente attraverso l’utilizzo della forza interiore”. Questo è un uomo. Anzi: un padre.

Una

figura di cui abbiamo disperatamente bisogno. Tutti, nessuno escluso. Perché tutti siamo figli. E molti di noi già sono, o diventeranno, padri. Ce la caveremo, quindi. Ma solo se accetteremo la sfida della paternità.

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