Come sarà il lavoro del futuro? Quali trasformazioni avverranno, e in quale direzione? E, soprattutto, ci sarà ancora un impiego per la maggior parte delle persone, visto che molti studiosi parlano ormai di «fine del lavoro»? Una prima risposta la dà Paolo Perulli, sociologo dell'economia, docente all'Università del Piemonte orientale, che di questi temi si è occupato nel saggio Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo (Il Mulino): «Non vedo una fine del lavoro, bensì un suo cambiamento profondo». Perulli lo spiega a partire dai tre «strati» della società di oggi: l'élite, la classe creativa e la neoplebe. «Le stime dicono che la neoplebe rappresenta il 58 per cento della popolazione lavoratrice in Italia: una cosa enorme. Anche se in città come Milano o Bologna scende al 40 per cento. Ma ad essere in crescita, in tutto il mondo, oggi è la classe creativa; una tendenza destinata ad aumentare nei prossimi anni». Le stime dicono anche un'altra cosa: «Arriveremo ad avere un inattivo per ogni attivo: andiamo verso una società del non-lavoro, in questo senso. Qualcuno dovrà occuparsi di coloro che restano fuori». Fuori dalla classe creativa in crescita. Ma come? «Una delle soluzioni è il cosiddetto reddito minimo universale, finanziato tassando le imprese che utilizzano beni comuni, in particolare ambientali».
Una prospettiva più radicale è quella di Martin Ford, imprenditore della Silicon Valley e autore del saggio Il futuro senza lavoro (ilSaggiatore): «È dal 2009 che sostengo che l'Ia e i robot distruggeranno molti lavori. Spariranno molti milioni di impieghi, soprattutto quelli di natura più routinaria. Perciò molte persone dovranno lottare per trovare un mercato». Secondo Ford, in questa situazione «ci sarà ben poca scelta, se non di fornire direttamente un salario, attraverso qualcosa come un reddito minimo universale: va ripensato il contratto sociale». Altre strategie potrebbero essere «una settimana di lavoro più corta, il job sharing, o incentivi all'imprenditorialità». Ma, secondo Ford, sono adatte solo per una fase «di passaggio» verso il reddito minimo universale. Come ottenerlo? «L'idea è che i governi prelevino tasse dalle imprese e usino questi fondi per dare un reddito a ciascuno. Io propendo per un sistema che includa degli incentivi, per cui si possa ottenere un reddito maggiore andando a scuola, o facendo il volontario. Così le persone avrebbero qualcosa per cui darsi da fare». Nei dettagli di un mondo senza più cartellini da timbrare scende Anton Korinek, professore di Economia alla Darden School of Business della Virginia e autore con Megan Juelfs della ricerca Preparing for the (Non-existent?) Future of Work, ovvero «Prepararsi al (non-esistente?) futuro del lavoro»: «L'idea è che, se le persone non sono più obbligate a lavorare e, allo stesso tempo, si prende sul serio la sfida della distribuzione del reddito, potremo goderci di più la vita». Resterà qualche lavoro «per i nostalgici», dice Korinek, ma un futuro «senza lavoro significa che il lavoro umano non sarà più economicamente necessario». Se le macchine potranno produrre tutto, e meglio di noi, allora «gli stipendi scenderanno drasticamente» ma, allo stesso tempo, «le macchine potranno produrre guadagni enormi, perciò sperimenteremo una crescita economica velocissima». Ed ecco la ridistribuzione: «Condividere parte di questo surplus extra renderebbe il reddito minimo universale possibile. Purché la distribuzione del capitale e della proprietà delle macchine sia ampia». Il rischio che, tutti sussidiati dallo Stato e senza nulla da fare, si diventi ancora più facile preda del controllo e del Potere, non preoccupa Korinek: «Oggi la vita della maggior parte delle persone è controllata dal mercato: siamo costretti a lavorare per avere uno stipendio. Un reddito minimo universale ci libererebbe dal controllo del mercato e ci consentirebbe molta più autonomia individuale. L'obiettivo dovrebbe essere massimizzare il tempo libero per perseguire le proprie passioni: il lavoro è un mezzo per dei fini, non un fine in sé stesso».
È quanto di più lontano da ciò che sostiene Luca Pesenti, sociologo e professore all'Università Cattolica di Milano, autore di Smart working reloaded. Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie (Vita e pensiero). Infatti, per Pesenti parlare di reddito minimo universale è «una distopia». «Non penso che ci sarà la fine del lavoro, ma la mia maggiore preoccupazione è per la crisi del significato del lavoro: oggi è in discussione che il lavoro possa avere un significato positivo, buono, perché è venuto meno tutto ciò che dava dignità alla fatica». E allora «se il lavoro non ha più significato, la tentazione è di dire: liberateci dal lavoro, facciamolo fare alle macchine, gli Stati ci daranno un reddito universale per sopravvivere»... All'altro estremo c'è la «società prestazionale» delineata da Byung-Chul Han, in cui «il lavoro diventa pura performance, una lotta in cui siamo in competizione con noi stessi». Quale delle due vie prevarrà? «Spero una terza - dice Pesenti - in cui si riproponga la domanda fondamentale: che cos'è l'uomo e per quale destino è fatto?». Un destino a cui pensa anche Giovanni Mari, già professore di Storia della filosofia all'Università di Firenze, che nel suo Libertà nel lavoro. La sfida della rivoluzione digitale (Il Mulino) riflette sulle nostre attività lavorative in un mondo trasformato dalla tecnologia. Di fine del lavoro servile - spiega - parla «già Aristotele, nella Politica, quando dice: potrebbe accadere che le cetre suonino da sole, le macchine tessili funzionino da sole»... Insomma il filosofo greco immagina una forma di automazione, grazie alla quale «gli schiavi si liberano». Per noi, invece, il lavoro «è anche autorealizzazione: non è solo fatica, è anche un bisogno». Quindi, secondo Mari, «il problema è trasformare sempre più il lavoro da una attività costrittiva, coercitiva e poco qualificata in una attività libera, creativa, intrecciata di conoscenza continuamente aggiornata. Non solo credo che questa via sia possibile con un uso partecipato della tecnologia: penso sia l'unico modo per favorire insieme crescita delle persone che lavorano e della produttività per avere ciò che ci serve, come società».
Un punto di vista ancora diverso è quello di Silvia Zanella, manager e autrice di Il futuro del lavoro è femmina (Bompiani), che non è affatto un libro «di genere» bensì racconta «Come lavoreremo domani»: «Da cinque anni ci muoviamo su una faglia tellurica, e il terremoto è ancora in corso: la prima scossa è stata data dal progredire dell'automazione e del machine learning; un'altra dal Covid; oggi dai movimenti culturali e di leadership e dalla forza dirompente della tecnologia, che sembra mettere a rischio un certo modo di lavorare nella sua interezza». Questo modo riguarda da un lato «tutti i lavori, perché è legato alla responsabilità del singolo, alla sua flessibilità e aderenza al progetto, per cui il lavoro non è più solo uno scambio economico fra datore di lavoro e lavoratore». Dall'altro è legato specificatamente alla tecnologia: «C'è la possibilità che aumenti la disoccupazione, perciò bisogna investire nella formazione e nell'idea di re-occupabilità. Ormai esistono tante vite professionali» dice Zanella. Ma perché il futuro del lavoro è «femmina»? «Certe competenze prettamente umane, tipicamente attribuite alle donne - ascolto, dialogo, cura, cooperazione, empatia - prima erano considerate di serie B, perché morbide, rispetto all'importanza della tecnicalità. Oggi però proprio questi aspetti sono quelli più tecnologizzati, ed è facile diventare obsolescenti; invece le caratteristiche umane diventano dirimenti: sono ciò che fa sì che un lavoro lo possa fare solo una persona, e non una macchina».
E la fine del lavoro? «Quanto a quello inteso in modo classico, siamo già al suo funerale. Ci sarà una diminuzione della quantità di lavoro, il che per certi mestieri è meglio; ma il lavoro, inteso come fonte di autorealizzazione, orgoglio e sostentamento, non è destinato a finire a breve».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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