Il fantasma della Nazione

Le contraddizioni della destra affondano le radici nella storia, come mostra un saggio di Alessandro Campi Tutto cominciò con l’Unità...

Il fantasma della Nazione

l fantasma della nazione (Marsilio, pagg. 205, euro 15) è il bel titolo del libro di Alessandro Campi scritto per rispondere a tutta una serie di interrogativi che continuano a riproporsi intorno a quel lenzuolo, più o meno evanescente, e alla sostanza o ectoplasma che sotto vi si nasconde: che cos’è, nel XXI secolo globalizzato, una nazione? Un anacronismo, un residuo, una scommessa per il futuro, un rifugio? Che rapporti ha con la democrazia? Quanto nazionalismo c’è nel sovranismo o il sovranismo non è altro, per usare le parole dell’autore, che «il nazionalismo dei popoli stanchi»? E ancora, visto che l’analisi è incentrata sull’Italia, che rapporto con la nazione hanno avuto, dall’Unità in poi, la destra e la sinistra?

Che idea di nazione hanno maturato e propagandato, nel secondo Novecento, i due maggiori partiti italiani, la Dc e il Pci? Quanto il crollo della cosiddetta Prima repubblica e il venire alla ribalta di nuovi soggetti politici, ha contribuito a una rinnovata sensibilità nazionale?

Infine, e più specificatamente, visto che, forse frettolosamente, si è sempre abbinato la parola «nazione» alla parola «destra», quasi ne fosse la logica e conseguente appendice, vale la pena chiedersi, come appunto fa Campi, quale destra, nel corso della nostra storia unitaria, l’abbia incarnata meglio.

Su questo punto, l’autore non ha dubbi: «Alla base di questo saggio c’è l’idea che l’unica destra che sembra aver intrattenuto un rapporto culturalmente originale, ma anche virtuoso e costruttivo sul piano politico, con l’idea di nazione è stata quella moderata e liberal-conservatrice di età risorgimentale, la cosiddetta destra storica». La sua visione della nazione, patriottica, ma pragmatica, con alla base «un’idea della politica intesa come dovere civico», come «visione ottimistica del futuro», ma anche con un «particolarismo nazionale che non veniva considerato alternativo ad altre forme di appartenenza a partire da quelle europee» è stata però «successivamente negata, trasfigurata, superata, quando non apertamente contestata e criticata, comunque non adeguatamente ripresa e valorizzata dalle destre che (...) si sono susseguite nella Penisola nel corso del Novecento».

Il paradosso che, per Campi, deriva da questa constatazione è che «la destra italiana (...) alla prova dei fatti non è riuscita a sviluppare una visione all’altezza delle sfide della storia o a elaborarne una concezione politicamente efficace». Deriva da qui la sua «rimozione dal proprio orizzonte ideale, come è accaduto con il moderatismo cattolico democristiano del secondo dopoguerra», la sua declinazione «in chiave puramente retorica, strumentale, polemica e didascalica, come nel caso odierno del “sovranismo”», o della formula «da tifo sportivo (“Forza Italia”) di Silvio Berlusconi». Per non parlare della «versione assolutista» dei nazionalisti del primo Novecento, o della sua negazione, «sul piano politico-concettuale», fatta dal fascismo con il suo anteporle lo Stato.

Se è così, viene però da chiedersi se il paradosso non stia da un’altra parte, ovvero se quella «destra storica» rivendicata da Campi, più che essere una realtà radicata nella storia dell’Italia risorgimentale non ne sia stata un’eccezione, una deviazione di percorso, se si vuole, oppure un controsenso, la spia di un qualcosa di eccentrico e perciò irripetibile, strettamente legato alle sorti di un’etichetta politico-ideologica, la destra, che, sempre con quella storia risorgimentale, aveva poco o punto a che fare.

Vediamo di spiegarci meglio. Il Risorgimento italiano nasce a sinistra, non a destra, è un fenomeno innervato dal messaggio della Rivoluzione francese, è rivoluzionario e/o progressista, non conservatore. Schematizzando, per fare l’Italia bisogna fare tabula rasa di ciò che c’è, i granducati e i regni, il papa-re eccetera... C’è dunque in Italia una sorta di «conservatorismo impossibile» e infatti all’indomani dell’Unità la partita si giocherà sempre fra progressisti e moderati, ovvero fra due modi di intendere lo sviluppo e la stabilità nazionale. Il trasformismo parlamentare dell’epoca ci dice proprio questo: maggioranze composite e più o meno occasionali, dove riformisti e radicali, moderati e progressisti si scambiano le parti proprio perché partecipi dello stesso sistema di valori rivoluzionari che è alla base del neo-nato Stato italiano. Nessuno rimpiange il passato, nessuno vuole conservare il passato, nessuno vuole tornare al passato.

Si può obiettare che il Piemonte, il genio politico di Cavour, rappresentino lo spostamento a destra del pendolo risorgimentale di sinistra, ed è un’obiezione fondata. Ma, come avverte lo stesso Campi, il regno di Vittorio Emanuele II vedeva «nell’unificazione non tanto e non solo il realizzarsi di un grande disegno storico-ideale, quanto un ampliamento dei possedimenti in una logica tradizionale di potenza e espansionismo militare». Se a ciò si aggiunge il complesso gioco diplomatico che contribuisce alla nascita dello Stato unitario italiano, si comprenderà, come scrive Campi, quanto sia «difficile, per qualunque cultura o ideologia politica, anche per quelle classificabili come di destra, fissare in modo chiaro gli interessi strategici fondamentali di uno Stato che sin dalla sua costituzione ha avuto una proiezione internazionale indefinita», nonché le sue dinamiche interne sempre «influenzate, se non addirittura direttamente determinate, dai cambiamenti degli equilibri di potenza prodottisi sulla scena mondiale nelle diverse fasi storiche». Insomma, non solo nel nostro Risorgimento la destra resta un oggetto misterioso, costretto nella sua dimensione moderata e non conservatrice, nell’accezione prima ricordata, ma è ancorata altresì a un’epoca dove non c’è il suffragio universale, ma si vota per censo, premoderna, insomma, e come tale difficilmente transitabile, come esperienza e come suggerimento politico, nel secolo successivo della democrazia di massa.

Va infine osservato che il nazionalismo italiano, così duramente, e giustamente, stigmatizzato da Campi, è comunque figlio, neppure troppo illegittimo, di quello post-risorgimentale di ispirazione crispina, e quindi mazziniano-garibaldina, più o meno conforme allo «struggle for Africa» delle potenze europee dell’epoca. Ma è altresì fratello minore di quell’imperialismo giolittiano, di matrice liberale, della guerra italo-turca del 1911, entrambi rappresentativi di quel progressismo/moderatismo che è la dicotomia costante della politica post-unitaria italiana.

Sempre sul nazionalismo, Campi compie un’interessante operazione di recupero, andando a vedere in quello di stampo prezzoliniano un elemento di modernità. Rispetto al nazionalismo retorico-guerrafondaio, Prezzolini ne rivendicava uno, come dire, etico-educativo, un invito a migliorarsi internamente prima di provare a espandersi brutalmente e in virtù della forza. È, sottolinea Campi, «la differenza sostanziale che corre tra il nazionalismo propagandistico e ideologico (...) e il nazionalismo inteso come programma politico, come visione nazionale di un futuro possibile, come progetto di emancipazione collettiva».

Viene tuttavia da chiedersi, per fare un solo, ma significativo, esempio, se il popolo inglese che sul finire del Rinascimento cominciava ad assumersi responsabilità imperiali, fosse più maturo e/o più pulito dell’Italia che un paio di secoli dopo usciva dal Risorgimento, se il “tono” morale che prese a contraddistinguerlo, non fosse più una conseguenza imperiale che una premessa nazionale, se, insomma, il gentleman non fosse più figlio dell’India e dell’Africa che del giardino insulare di Britannia...

Questo lungo excursus risorgimentale aiuta a capire meglio le successive difficoltà della destra italiana a petto del concetto di nazione, la sua incapacità, come sottolinea Campi, di «tradurre il suo patriottismo in una visione ideologico-progettuale realistica e articolata». A questa incapacità, vanno aggiunti due fattori. Il primo, alla destra esterno, sta nel fatto che nell’Italia repubblicana l’idea di nazione venne «lungamente espunta dal dibattito politico-culturale e riposta nella cantina della storia». Il secondo, intrinseco e legato alla cosiddetta destra postfascista, è la difficoltà a riconoscersi nella «vulgata ufficiale egemone a livello di cultura pubblica» della storia italiana del Novecento, qualcosa che un altro politologo, Marco Tarchi, ha definito efficacemente con la formula «esuli in patria». Campi lo giudica, «a settant’anni dalla fine della guerra civile», anacronistico, «del tutto strumentale e persino poco comprensibile agli occhi delle nuove generazioni» e vi vede anche «un modo per non liberarsi dal fantasma del (proprio) passato».

Ha ragione, ma vale la pena rilevare che l’espunzione, protrattasi per troppo tempo, del concetto di nazione da quella stessa «vulgata ufficiale» ha a sua volta contribuito a farne un fantasma per le nuove generazioni intanto succedutesi, così come l’utilizzo strumentale del 25 aprile ha finito «per ridurne il valore aggregante», tanto più se quell’utilizzo coincideva con il «contrapporre sul piano dei valori, l’Italia democratica nata il 2 giugno 1946 all’Italia unita, indipendente e sovrana nata il 17 marzo 1861». C’è di più, come ha notato recentemente sul Corriere della Sera, con la consueta lucidità, Ernesto Galli della Loggia, ovvero la peculiarità della storia italiana in quanto a patologie antidemocratiche.

Non c’è stata solo quella fascista, ma anche quella comunista e, «sul piano del linguaggio, e dunque della costruzione della memoria pubblica», è sempre valsa per quest’ultima «la regola assoluta dei due pesi due misure», ossia la sua trasformazione in un santino resistenziale auto-assolutorio e in un randello ideologico. Ma, scrive Galli della Loggia, se non si affronta questo nodo antidemocratico del comunismo in tutta la storia novecentesca italiana, si resta nell’impossibilità e/o non volontà «di capire le ragioni degli altri» proprio perché non si riconoscono «i torti propri»...

Così, alla fine, più che un fantasma è un balletto di spettri quello che danza intorno al nostro essere e sentirsi italiani, alla nostra poco salda memoria storica, fragile per colpa delle troppe censure, interpretazioni e riletture ideologico-politiche che il settantennio repubblicano si è portato con sé: il Risorgimento «tradito», la dissacrazione della Prima guerra mondiale, il fascismo come fenomeno estraneo alla comunità nazionale, il moralismo antitaliano di matrice azionista, la «questione meridionale» sempre agitata ma mai

affrontata, la contrapposizione fra le due chiese partitiche, la democristiana e la comunista, ambedue a loro modo antinazionali, l’implosione della Prima repubblica, eccetera.

Troppi fantasmi, appunto, per una nazione che non c’è.

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