Ecco l'umano, scarnificato, vuoto, appeso, perennemente disorientato, fotocopia di una fotocopia, con il fardello di una carrellata di desideri sulle spalle e senza la speranza di conoscersi, tanto che l'io non è neppure più un altro, ma un se stesso al quadrato, al cubo, a «n più uno», senza riuscire per beffa degli dèi a tendere all'infinito. Ti ritrovi a parlare con Giovanni Orsina su quale sia l'architrave della cultura di destra, quel qualcosa per cui vale la pena immaginare una filosofia politica in questo secolo ancora tutto da decifrare e il senso da dare a certe parole: liberale o conservatore e con tutti gli aggettivi che si possono declinare. Orsina di mestiere fa lo storico, insegna alla Luiss, e se si vuole l'editorialista e il politologo. È che con gli anni diventa difficile definirlo. È semplicemente un intellettuale, qualsiasi cosa questo voglia dire. È lui che si ferma a parlare dell'umano, quello quotidiano, reale, di sangue e sudore, con le sue bestemmie e meschinità, che non è un'astrazione e neppure una merce. È lui che bisogna conservare. La sfida è antropologica.
L'umano sta diventando innaturale?
«Sempre di più. Noi abbiamo vissuto gli ultimi trent'anni in un mondo che vuole gli esseri umani adatti alla globalizzazione».
E quale umano è?
«È un uomo che non ha radici e si basa solo su se stesso. Non ha riferimenti esterni. L'unica cosa importante è l'autonomia individuale che però non si sa più da che cosa debba essere nutrita. Posso fare quello che voglio, ma cosa voglio? Puoi vivere a New York, a Tokyo, a Roma e ovunque fai la stessa vita, compri le stesse cose, ragioni nella stessa maniera. Ovunque trovi lo stesso tipo di individuo».
Qualcuno potrebbe dire che è un individuo senza confini, frontiere, vincoli e fabbro del suo destino. Libero.
«È una libertà che si applica a un essere umano teorico, astratto, artificializzato».
Il problema allora è la libertà?
«Dipende da che cosa si intende per libertà. Ti potrei rispondere che il concetto globalista è totalitario. È il progetto, ancora una volta, di forgiare l'uomo nuovo, distruggendo la tradizione e disincarnando l'umano».
Sembra la distopia di Aldous Huxley in Mondo nuovo.
«Fondamentalmente sì. Sono anche le parole di Montale sull'innaturalità. Ricordi?».
No, non a memoria.
«L'innaturalità è il destino dell'uomo, uscito dallo stato di natura per entrare nella sua fase artificiale. Nell'uomo sapiente c'era ancora qualcosa di naturale, di scimmiesco, che ora deve estinguersi in vista di un'altra epifania. Avremo un giorno l'uomo totalmente selfmade, costruito da sé, fabbro dei suoi destini, padrone, se non dell'universo, del suo mondo».
È che c'è di male?
«Tutto. Distruggi gli esseri umani concreti per costruire l'Homo Deus. Ma poiché l'Homo Deus è irraggiungibile, alla fine resti con un cumulo di macerie. Omogenee e illiberali».
Fino a quando i «divergenti» non si ribellano.
«È quello che sta accadendo. Viviamo la ribellione del piccolo contro il grande, del concreto contro l'astratto, del vicino contro il lontano, del presente contro il futuro, del mondo vissuto contro il mondo pensato».
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