In tutto il Paese la terza notte fu di gran lunga la più violenta. Non vi era più un poliziotto nelle strade. In mancanza di fazioni distinte non si parlava ancora di guerra civile ma di “disordini interni”. A causa dei saccheggi e degli incendi, gli incidenti si spostavano dalle banlieue verso i centri delle città e le zone commerciali. Il primo giorno, a Vélizy 2, la situazione restò normale, con migliaia di consumatori istupiditi che vi transitavano come ogni giorno, senza accorgersi l’uno dell’altro. Il secondo giorno, quando il presidente fu ammazzato, ci andò meno gente. Era rimasta a casa, per informarsi. La mattina del terzo giorno, alcuni uomini in nero, armati e senza insegne, incappucciati e muniti di casco, provenienti da Villacoublay, confiscarono quasi tutti gli alimenti. La sera stessa, vi furono molti feriti gravi prima dell’arrivo della polizia.
Si pretendevano delle distribuzioni. Si assaltarono dei negozi, poi si lanciarono dei sassi contro i poliziotti. Un agente della Sicurezza fu pugnalato. Un impiegato del centro aveva coperto il sangue con della sabbia e, nella notte, la polizia se n’era andata e la folla ritornata. Scoppiò il caos. In quel dedalo di insegne e di negozi, ciascuno s’impossessava di quel che poteva. La razzia interessò tutti i piani. Nel grande atrio del primo, una ragazza continuava a suonare il violoncello, senza molta convinzione, in mezzo agli spintoni e alle urla, alle risse per un televisore, alle spedizioni di bande e di attivisti. I giovani indigenisti, condizionati dalla smania di “riparazione” prendevano d’assalto i negozi. Il centro commerciale “più inclusivo dell’Île–de–France” viveva il suo grande corto circuito.
Una specie di crociera in pieno naufragio, con i ponti lussuosi che continuavano a luccicare, anche se per poco tempo ancora. Un gruppo di ivoriani armati di sbarre di ferro assaltavano una macchina distributrice di dolci e l’adiacente cabina per fototessere che continuava a sparare flash sulle ragazzette che stavano all’interno, tutte allegre, moltiplicando le loro pose grottesche, applaudite da un uomo dall’apparenza rispettabile che passava di là, pronto a mettersi dalla parte dei più forti.
Alcuni studenti di buona famiglia, partigiani sfaccendati del caos, protestavano contro le “disuguaglianze climatiche” saccheggiando le grandi marche. Alcuni di loro filmavano, con il sorriso alle labbra, riprendendosi a vicenda. Alcuni pannelli pubblicitari etnicizzati venivano rovesciati per terra da militanti indigenisti che vi vedevano una nuova forma di tratta schiavistica, l’eterno sfruttamento dell’uomo nero.
Le grandi imprese, comunque sempre attente alla comunicazione cittadina, stentavano a seguire le evoluzioni della giustizia sociale. Nella galleria superiore ci si accaniva contro un negozio di videogiochi, settore da lungo tempo preso di mira dagli attivisti della intersezionalità e, in particolare, contro gli articoli dell’azienda Nintendo: Mario, stereotipo binario e misogino, Wario, simbolo omofobo dell’“inversione” asseritamente malefica, Doley Kong, caricatura razzializzante facilmente riconoscibile della forza primitiva, i Pokemons, gioco ultra–specista che riduce gli animali alle loro caratteristiche particolari. Senza parlare dei mascheramenti Cosplay, associati al travestimento ricreativo, accusato di liberare il pensiero contro le persone transgender.
In compenso, nessuno aveva toccato il vicino locale associativo, una casa di risveglio alla fede coranica, sostenuta dall’ente regionale. “Contro l’islamofobia, educatevi, educateli!” proclamava il manifesto di una campagna per il “Burqa solidale”, i cui benefici erano versati all’edificazione di luoghi di culto e diretta inoltre a “smontare il mito degli attacchi con il coltello”.
Terminata la loro operazione di sensibilizzazione, gli attivisti anti–Nintendo si erano dispersi, lasciando la commessa in lacrime, prostrata, coi vestiti strappati, coperta di spruzzi di sangue finto. Una ragazza dai capelli blu, indignata per questo slut–shaming cercava di confortarla ma un’altra militante le fece notare che era paternalistico e misogino sovra–vittimizzarla. Un militante del collettivo “No–Offense”, a torso nudo, fisico scheletrico senza un muscolo, con un colorito pallido dalla testa ai fianchi, schiena curva intagliata dalle vertebre, scapole alate, si contorceva per uscire attraverso la vetrina fatta a pezzi, quando uno spigolo di vetro si piantò nella sua schiena, spezzandosi e lasciandoci una scheggia. Convinto anti–maschilista, rivendicando la sua fragilità in ogni occasione, lanciò un urlo da bambino e crollò in posizione fetale, ripiegando davanti a sé le sue lunghe membra senza carne, come un ragno sotto attacco che finge la morte.
I suoi compagni s’inginocchiarono sopra di lui e cercarono di calmarlo. Uno di loro appoggiò una t–shirt sotto la ferita da cui spuntava la scheggia di vetro per asciugare il sangue. Una banda di saccheggiatori che passavano accanto li sbeffeggiarono. Una eco–femminista che mostrava i suoi seni si mise a gridare quando un gruppo tentò di palpeggiarla. Una ragazzina, che piangeva a dirotto in mezzo alla galleria, fu portata via da uno sconosciuto. Famiglie smarrite cercavano di fuggire e, per scommessa dei ragazzini di quattordici anni, si misero ad aggredire dei passanti.
C’erano verso i feriti dei gesti di solidarietà e di compassione, soprattutto da parte di donne, ma altri sputavano loro addosso ridendo e i testimoni lo trovavano quasi del tutto normale, tanto erano abituati alle estreme dissonanze del vivere–insieme–solidale–e–collettivo.
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