L'Europa brucia ancora. La profezia della Fallaci

Un saggio restituisce la dimensione giornalistica e letteraria allo "scrittore". Ma c'è qualcosa di più

L'Europa brucia ancora. La profezia della Fallaci

Quando i rapporti tra Occidente e mondo islamico si surriscaldano, come accaduto in questi giorni in seguito alla vicenda del Corano farcito di pancetta e incenerito davanti a una moschea svedese, viene subito in mente l'ultima Oriana Fallaci. Giusto. Ma è giusto, e ormai indifferibile, un approccio critico all'opera dello scrittore (come preferiva farsi chiamare) toscano che ne restituisca lo spessore giornalistico e letterario. Per questo motivo è interessante il libro di Anna Gorini intitolato Una straordinaria antipatica. Oriana Fallaci giornalista e scrittrice (Carocci editore, pagg. 188, euro 21). Peccato per il titolo: «scrittore», magari tra virgolette, sarebbe stato più corretto. La Fallaci, straordinariamente antipatica e puntigliosa, non lo avrebbe mai approvato. Lei era appunto «uno scrittore», come Gorini, sia chiaro, sa benissimo. In quanto all'antipatia straordinaria, diciamo che la Fallaci, senza offesa, era una formidabile rompiscatole, roba di prima categoria, come sa chiunque abbia avuto la sorte di lavorare con la Signora. C'è però da dire che questa straordinaria antipatia si trasformava spesso in una forma di grande rispetto per uno scrittore, la Fallaci, che perseguiva sempre e comunque la perfezione, e questo per amore di se stessa e del lettore. È noto il suo modo di lavorare, massacrante anche per gli altri. La Signora faceva comporre il testo e iniziava un tour de force di correzioni, revisioni, spostamenti che farebbe impazzire anche il più scafato dei filologi. Quando le sembrava di aver raggiunto un buon equilibrio, arrivava la prova che faceva tremare i polsi ai collaboratori: la mitica lettura a voce alta. Se l'opera suonava bene, tutto a posto, si procedeva comunque a correggere fino a un secondo prima di andare in stampa, ma con la certezza che qualcosa sarebbe andato in stampa. Se l'opera suonava male, apriti cielo. Si rifaceva tutto da capo, lavorando anche dodici ore al giorno, col terrore di non arrivare comunque in tempo per la stampa. Leggendarie le telefonate notturne da New York. Fallaci: «Che ore sono a Milano?». Redattore, cioè io, appena arrivato a casa dopo una giornata allucinante: «Mezzanotte, Signora». Fallaci: «Bene, allora ci si hanno ancora tre ore buone».

Il problema è che non si poteva dire no. All'epoca, un articolo della Fallaci valeva fino a quindicimila copie e Oriana regalava gli articoli a Libero, dove lavoravo, per stima e amicizia del direttore Vittorio Feltri. Perdonate un aneddoto personale. Quando fu deciso che avrei fatto da redattore alla Fallaci, Feltri mi convocò e disse: «Qualunque cosa succeda, l'articolo deve arrivare in edicola. Capito? Preparati al peggio. Non me la fare incazzare». Io mi chiesi cosa potesse mai andare storto. Che problema c'era? Santa ingenuità. La prima telefonata andò così: «Buongiorno Signora, chiamo da Libero, come sta?». Fallaci: «Male, ci ho il cancro».

Alla fine l'articolo comunque uscì, fu il primo di una lunga serie e di una lunga attività al servizio della Fallaci. La sera prima che l'articolo arrivasse in edicola, ero a cena con Feltri, in montagna. Gli chiesi: «Direttore, cosa faresti per superare le centomila copie con l'articolo della Fallaci?». Feltri: «Scalerei a mani nude quella montagna». Era il picco dello Sciliar, 2564 metri in verticale sopra Siusi... Libero superò le centomila. Non so se Feltri si sia arrampicato ma conoscendolo potrebbe anche essere.

Torniamo al libro. Preciso e intelligente, si apprezza soprattutto la parte dedicata ai maestri di Oriana, primo fra tutti, il grande Curzio Malaparte. Molte cose in effetti avvicinavano l'uno all'altra. Lasciamo da parte il giornalismo. La grandezza di Malaparte, come quella di Oriana, consisteva (anche) nel trasformare i reportage in chiave letteraria e nel tirare fuori romanzi eccezionali dalle esperienze sul campo. Kaputt o La pelle non potevano non affascinare l'inviata di guerra Oriana Fallaci. La Fallaci poi aveva buon gusto e un ottimo orecchio: capiva l'altezza alla quale Malaparte portava il toscano.

Gorini lascia il lettore alle soglie della Trilogia posteriore all'attentato dell'11 settembre 2001. Scelta non solo legittima ma anche giusta: la Trilogia, e la sua ricezione, meritano un altro libro. Innanzi tutto, si deve notare un fatto letterario di primaria importanza. La Rabbia e l'Orgoglio e La Forza della Ragione non sono affatto pamphlet. Appartengono al genere della predica, bisogna immaginare i testi recitati dal pulpito. Le prediche hanno come scopo di suscitare la reazione del lettore. Inutile cercare, come qualcuno ha fatto, la precisione storica. Molti lettori e critici de La Rabbia e l'Orgoglio si sono concentrati troppo sulla Rabbia e hanno tralasciato l'Orgoglio. L'orgoglio di essere italiani e di condividere, con il resto dell'Europa e gli Stati Uniti, uno stile di vita, che possiamo chiamare occidentale, fondato (bene o male) sulla libertà. Quell'orgoglio latita e il libro, infatti, è una predica innanzi tutto rivolta alla nostra società. Una società ignorante della propria storia e vigliacca, prona ai dettami del politicamente corretto, disposta a scaricare il fardello della libertà. Una società che, di fronte alla minaccia del terrorismo islamico e alle rivendicazioni identitarie degli immigrati, si arrende e retrocede. Rinunciando, un po' alla volta, a Stato di diritto, parità dei sessi, libertà d'espressione, separazione tra Stato e religione. L'immigrazione incontrollata dai Paesi arabi e la parallela esplosione delle comunità musulmane europee rischiano di ribaltare i tradizionali equilibri non solo dei quartieri metropolitani ma perfino di intere cittadine. La convivenza da incerta diventa impossibile nel momento in cui i numeri sono incongruenti.

L'ondata migratoria che si è abbattuta sull'Europa non è paragonabile a quella che si abbatté sull'America tra Otto e Novecento. L'America era un Paese giovane e dagli spazi enormi: «Noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: recente mosaico di gruppi etnici e religiosi, disinvolto guazzabuglio di lingue e religioni e usanze, ma nel medesimo tempo aperti a ogni invasione e in grado di respingerla».

La nostra identità culturale è definita da secoli e «non può sopportare un'ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri principii, i nostri valori. Sto dicendo che da noi non c'è posto per i muezzin, pei minareti, pei falsi astemi, per il fottuto chador e l'ancor più fottuto burkah. E se ci fosse, non glielo darei.

Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che abbiamo bene o male conquistato, la democrazia che abbiamo bene o male instaurato, il benessere che abbiamo indubbiamente raggiunto. Equivarrebbe a regalargli la nostra Patria, insomma. L'Italia. E io l'Italia non gliela regalo» (La Rabbia e l'Orgoglio).

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