Roberto Esposito, professore di Filosofia teoretica presso la Scuola normale superiore di Pisa, studioso di filosofia politica e di geopolitica, tra i fondatori del Centro internazionale per il lessico giuridico e politico europeo, nonché editor della rivista Filosofia Politica, da tempo si occupa di problematiche europee, flussi migratori e identità nazionali. In particolare, nel suo ultimo libro, Da fuori. Una filosofia per l'Europa (Einaudi, pagg. 256, euro 22), ha proposto approcci inediti ad alcune delle questioni più spinose: immigrazione, terrorismo, identità europea, identità nazionali.
Come vede la situazione in Catalogna? Quali sono secondo lei le cause reali che muovono gli indipendentisti?
«Le cause che muovono gli indipendentisti si radicano nella storia e nella cultura della Catalogna, molto peculiare, anche dal punto di vista linguistico. Ciò però vale per diverse regioni europee, per esempio la Bretagna e i Paesi Baschi. Se ognuna di esse reclamasse l'indipendenza, si arriverebbe non a una eliminazione degli Stati sovrani, ma a una loro moltiplicazione. In questo modo si rischierebbe di uscire dalla crisi degli organismi statali non in avanti, verso un orizzonte postnazionale, ma all'indietro, verso un orizzonte premoderno, neomedioevale. Oggi l'Europa pare dilaniarsi tra due sovranismi, un macrosovranismo e un microsovranismo, entrambi per certi versi superati».
Le spinte indipendentiste e autonomiste oggi sono numerose in Europa. Ma vi sono anche spinte verso un abbattimento dei confini e il raggiungimento di una vera unità europea. Secondo lei quali forze finiranno per prevalere e quali rappresentano un passo in avanti, posto che non sempre grande è meglio di piccolo?
«È vero che grande non è sempre meglio che piccolo. Ma neanche il contrario, soprattutto quando grande e piccolo sembrano mossi dalla medesima logica. Che è quella di avere più vantaggi economici. Non dimentichiamo che le regioni che tendono all'autonomia sono le più ricche dei rispettivi Paesi, come Catalogna in Spagna e Lombardia e Veneto in Italia. Io credo che, alla fine di un processo non privo di tensioni e conflitti, si possa arrivare a una federazione europea che, senza cancellare le differenze, affidi all'Unione europea alcune prerogative comuni sul piano della politica economica e della politica estera, compresa la sicurezza dei suoi confini esterni».
Anche in Italia vi sono spinte autonomiste: come le giudica?
«Vi sono, ma non mi paiono paragonabili a quelle della Catalogna. La fase più acuta delle richieste di secessione in Italia, risalente alla prima stagione della Lega Nord, mi pare esaurita. Oggi le richieste di decentramento delle competenze, che non arrivano a negare l'unità dello Stato, mi paiono rispondere a esigenze comprensibili e spesso condivisibili di maggiore funzionalità amministrativa. Non direi che ciò determini particolari rischi per il nostro Paese».
La questione immigrati pare incidere sul desiderio di isolamento di alcuni Paesi. Tuttavia lei ha osservato che i Paesi che alzano barriere per frenare l'immigrazione corrono il rischio di sviluppare l'equivalente di una malattia autoimmune. Ma ha aggiunto che l'abolizione dei confini nazionali o l'accoglienza indiscriminata «anziché produrre un rafforzamento della differenza, finiscono per dissolverla in una omologazione assoluta». Quali soluzioni propone?
«Prendiamo il caso della gravidanza. In essa la madre dovrebbe espellere il feto perché esso ha un Dna diverso dal proprio in quanto commisto con quello del padre. E invece, per un fenomeno biologico che si chiama tolleranza immunitaria, lo conserva proprio in ragione di tale differenza. Se si adatta tale principio all'ambito sociale e politico, in maniera certo metaforica, si potrebbe desumere che la contaminazione prodotta dalla immigrazione può rafforzare il corpo politico in cui si integra. E infatti tutti gli studi sull'argomento dicono che senza l'immigrazione la popolazione europea in pochi decenni si impoverirebbe drasticamente sotto il profilo demografico. Naturalmente non sostengo che ogni immunità vada abolita. Nessuno di noi sopravvivrebbe senza un dato sistema immunitario e nessuna società sopravvivrebbe senza quel grande dispositivo immunitario che è il diritto. Si tratta piuttosto di misura. L'eccesso di difesa immunitaria può produrre una malattia autoimmune del corpo sociale nel suo insieme. Voglio fare un esempio molto concreto. A Napoli, dove vivo, le compagnie assicurative delle auto e delle moto alzano sempre più il prezzo, paventando un rischio sempre maggiore di furti. Il risultato è che gli automobilisti napoletani si fanno assicurare da compagnie non napoletane, provocando una crisi del settore. Chiaro?».
Come è possibile accogliere un numero così vasto di migranti, quand'anche gli Stati europei dovessero accettare il principio di suddividerli tra loro? E quale futuro per noi e per loro, dal momento che i vari modelli d'integrazione hanno fallito?
«Naturalmente il presupposto è che vi sia effettiva integrazione, come appunto tra il corpo del bambino e quello della madre. Sappiamo che spesso così non accade. Non solo i modelli di accoglienza senza integrazione stanno fallendo, ma rischiano di fallire anche alcuni modelli di integrazione, come ad esempio quello francese. Io credo che l'unica via possibile d'integrazione sia quella dell'accettazione, da parte di chi arriva, di una serie di presupposti giuridici e culturali della terra di accoglienza».
Sono sempre di più i politici e gli studiosi che sostengono che il fenomeno migratorio vada affrontato all'origine. Lo slogan «aiutiamoli a casa loro» viene spesso irriso. Che ne pensa?
«Nel mondo contemporaneo non è più possibile conservare gli attuali rapporti di forza tra Paesi ricchi e Paesi poverissimi. Servono investimenti assai più consistenti da parte dei Paesi ricchi in quelli poveri. O agevolazioni per questi ultimi nell'accesso a risorse vitali. Si pensi al costo altissimo di medicinali assolutamente vitali, come quelli contro le più diffuse malattie infettive nei Paesi del terzo e del quarto mondo. Ciò nasce dal costo dei brevetti che le ditte farmaceutiche fanno pagare, nella stessa misura, a tutti gli acquirenti. Qualcosa del genere vale anche per l'acqua e per il cibo. Altrimenti come si può pretendere che diminuisca l'immigrazione? Le risorse vitali che quegli esseri umani non trovano da loro verranno inevitabilmente a cercarle da noi».
Allargando il discorso: quale dovrebbe essere il ruolo dell'Europa nel panorama attuale? Quali principi la dovrebbero ispirare?
«Direi che i valori fondanti dell'Europa siano quelli della ragione e della libertà. Sono gli stessi che le città greche opposero, all'origine di ciò che ha preso il nome di Europa, all'Impero persiano unificato dal dominio di un unico despota. Già la pluralità delle città greche costituiva in sé un modello sconosciuto alle altre parti del mondo. Ai valori della ragione e della libertà, il diritto romano ha aggiunto quello dell'uguaglianza dei cittadini (romani) davanti alla legge, allargato dal cristianesimo attraverso il principio della solidarietà verso tutti gli esseri umani.
È vero che, nella sua storia, fatta anche di conflitti e di violenze, la civiltà europea ha più volte rinnegato tali valori, ma senza mai spezzare del tutto il filo con essi. L'Illuminismo non ha fatto che riprendere il modello del logos greco innalzandolo a valore universale».
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