Libertà è partecipazione... ma da soli

In Occidente l'adesione alla vita pubblica è sempre più qualcosa di individuale

Libertà è partecipazione... ma da soli

Il 13 marzo 2020 è probabilmente una data che i più hanno dimenticato. Meno di tre settimane prima erano stati individuati in Italia i primi casi di Covid-19 e domenica 8 marzo era scattato a livello nazionale quello che venne subito chiamato «lockdown». Stravolti dall'emergenza sanitaria, i palinsesti televisivi e la carta stampata avevano immediatamente concentrato la loro attenzione sulla diffusione del virus e molti attendevano quotidianamente il bollettino delle autorità sanitarie. La pandemia non pareva conoscere barriere e, con l'obiettivo di contrastare l'atmosfera cupa di quei giorni, sulle chat e sui social network iniziò a circolare la proposta di una sorta di inedito flash mob, che ovviamente, date le misure sanitarie, non poteva avere luogo nelle piazze. Alle 18 del 13 marzo, in tutte le città d'Italia molti balconi si affollarono e le parole scritte da Goffredo Mameli, di solito rispolverate solo in occasione delle partite della nazionale di calcio, risuonarono in molte strade.

L'euforia dell'«Italia dei balconi» fu presto dimenticata. Ma, osservata a distanza di anni, quella effimera manifestazione di unità nazionale può oggi essere considerata come un esempio eclatante della trasformazione che ha investito il nostro modo di partecipare alla vita pubblica. Quando uscirono sui balconi per testimoniare il loro sostegno alla lotta contro il virus combattuta negli ospedali, gli italiani parteciparono davvero a una manifestazione collettiva. Ebbero probabilmente la sensazione di essere parte di una «comunità». Forse alcuni provarono persino l'ebbrezza che talvolta produce la partecipazione a un evento collettivo. Se il 13 marzo 2020 gli italiani parteciparono dunque effettivamente a una sorta di flash mob, lo fecero però, paradossalmente, da soli. Fecero cioè tutto questo rimanendo chiusi nelle loro case, affacciandosi verso l'esterno per qualche minuto e rientrando poco dopo tra le pareti domestiche. Per accomodarsi di nuovo sulle poltrone cui la pandemia li aveva inchiodati, o per postare magari su qualche social network l'immagine dei balconi patriottici. E, dunque, per tornare in qualche modo, ancora una volta, a partecipare. Ma restando sempre, invariabilmente, da soli.

Nel 1995 Robert D. Putnam pubblicò un famoso articolo in cui sosteneva che negli Stati Uniti, a partire dagli anni Cinquanta, si era registrato un declino pressoché costante di ciò che definiva come capitale sociale: l'insieme delle reti fiduciarie che, all'interno delle comunità, facilitano la cooperazione. Un esempio del declino era offerto dal mutamento nelle modalità in cui gli americani giocavano a bowling. Il numero di giocatori era aumentato, ma si tendeva ormai a praticare questo sport da soli, mentre in passato lo si faceva all'interno di leghe strutturate. Il caso del bowling era naturalmente solo una delle molte manifestazioni del calo costante della partecipazione ad attività collettive, come associazioni religiose, organizzazioni di volontariato, associazioni civiche. Le cause, secondo il politologo, andavano individuate a diversi livelli: nei cambiamenti demografici, nella trasformazione dei nuclei familiari, nella maggiore mobilità geografica degli individui; nello sviluppo tecnologico, che aveva favorito una consistente «individualizzazione» dello svago (principalmente grazie alla diffusione della Tv); e anche nelle trasformazioni del lavoro, che avevano ridotto il tempo disponibile per attività collettive. Le conseguenze del declino implicavano invece un rischio per la democrazia. Perché secondo Putnam (come aveva dimostrato in una ricerca ventennale sulle regioni italiane), una buona dotazione di capitale di fiducia e reciprocità rappresentava il presupposto del buon rendimento delle istituzioni e, dunque, della stabilità della democrazia.

Più di recente, Putnam ha ripreso queste ipotesi, analizzando le trasformazioni della società americana dalla fine dell'Ottocento fino a oggi. In particolare, sulla base dei dati, il politologo individua un lungo ciclo storico: la prima fase vede una transizione dall'«io» al «noi», culminata negli anni Sessanta; la seconda, che giunge fino al presente, è invece contrassegnata da una nuova e costante regressione dal «noi» all'«io», ossia verso forme di spiccato individualismo. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del XX secolo, in quella che Mark Twain aveva ironicamente definito l'«Età dell'oro», la società americana era stata segnata da un travolgente individualismo, cui però aveva fatto seguito durante il New Deal, la Seconda guerra mondiale e il primo ventennio post-bellico una notevole crescita di solidarietà, cooperazione e benessere collettivo. Dalla metà degli anni Sessanta, le cose iniziarono tuttavia a mutare costantemente, facendo aumentare le diseguaglianze economiche, la polarizzazione politica e l'individualismo, oltre che disgregando i depositi di capitale sociale. Nel corso dell'ultimo mezzo secolo, secondo Putnam gli Stati Uniti hanno dunque sperimentato «un declino dell'uguaglianza economica, il deterioramento della tendenza al compromesso nello spazio pubblico, un tessuto sociale sfilacciato e una discesa nel narcisismo culturale» (R. Putnam, Comunità contro individualismo, il Mulino, 2023).

Come spesso avviene, i dati su cui Putnam poggia la sua analisi possono essere contestati. Non è inoltre detto che il quadro che delinea possa dire qualcosa di rilevante anche per le società europee. Ciò nonostante, alcuni degli elementi che Putnam coglie sono agevolmente riconoscibili anche nel Vecchio continente, soprattutto per quanto concerne alcune forme di partecipazione politica, come l'affluenza alle urne, l'iscrizione a partiti e la fiducia verso la classe politica. Anche questi dati possono però essere interpretati in vari modi. I pessimisti possono infatti vedere nel calo delle percentuali di votanti e degli iscritti a partiti delle testimonianze inequivocabili di una generale crisi della partecipazione. Con uno sguardo più ottimista, potremmo invece osservare che tali fenomeni si accompagnano alla richiesta di strumenti alternativi di partecipazione democratica, o che, al declino delle forme di partecipazione convenzionali, si accompagna una crescita di forme non convenzionali e meno strutturate.

Negli ultimi anni i Paesi occidentali sono stati d'altronde attraversati da non poche mobilitazioni, dai Fridays for Future, ai Gilet jaunes, al Black Lives Matter o al #metoo. Pur trovando nei social media un canale di proliferazione e coordinamento, tutti questi movimenti tra loro estremamente differenti hanno avuto ricadute nella «vita reale» e hanno dato vita a manifestazioni non molto diverse da quelle novecentesche. Senza eccezioni, nessuno di questi movimenti ha però dato origine a organizzazioni strutturate, che trascorsa la fase di «effervescenza collettiva», come la definiva Durkheim abbiano cercato di «istituzionalizzare» l'esperienza della mobilitazione. Il punto probabilmente non sta così tanto nell'assenza di partecipazione, quanto nel fatto che la partecipazione prende forme diverse dal passato.

E proprio questo aspetto è con ogni probabilità connesso a una trasformazione cominciata mezzo secolo fa, più o meno nella fase a cui Putnam fa risalire i primi segnali della nuova transizione verso l'individualismo.

*Direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore e di Aseri

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