Licy e il "Gattopardo", un matrimonio letterario

Nelle lettere fra Tomasi di Lampedusa e la moglie Alessandra Wolff von Stomersee, il ritratto di un'epoca

Licy e il "Gattopardo", un matrimonio letterario

Il libro Un matrimonio epistolare (Sellerio, pagg. 196, euro 14) ripropone a trentacinque anni di distanza quel Lettere a Licy (che uscì sempre da Sellerio nel 1987) con cui la curatrice del libro, Caterina Cardona, metteva giustamente l'accento su uno dei due protagonisti del carteggio, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Licy, ovvero Alessandra Wolff Stomersee (1894-1982), ne era la moglie e se lui era principe siciliano, lei era baronessa baltica, fiero nemico del fare l'uno, instancabile pedagoga l'altra, ciascuno a proprio modo murato in un passato di memorie e di dimore, il palazzo Lampedusa a Palermo, il castello avito di Stomersee in Lettonia, entrambi colti, poliglotti (si scrivevano in francese), eccentrici.

«Un matrimonio epistolare» era il sottotitolo di quella prima edizione, ora sostituito con «Corrispondenza tra Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Alessandra Wolff von Stomersee», come metterla formalmente e in fondo giustamente su un piano di parità, anche se nulla nella sostanza del libro è cambiato e in esso risuona più la voce, l'affetto, gli umori e i dolori del principe che quelli della baronessa. Unica novità rispetto a quella prima edizione, oltre una introduzione ad hoc della stessa curatrice, è una postfazione di Giorgio Manganelli, ovvero la recensione da lui fatta all'epoca per un quotidiano romano, Il Messaggero. Se vi accenno è perché in essa Manganelli rovesciava in qualche modo lo scambio epistolare in questione: l'interesse non stava nel mittente, ma nel destinatario delle lettere, non in Giuseppe dunque, ma in Licy: «Tra i coniugi, non v'è dubbio che la moglie sia la figura più rivelata», «emerge un'immagine di Alessandra complessa, difficile», «guerriera che ama i castelli, i duri ed esigenti freddi»... Tomasi di Lampedusa, in conclusione, da protagonista si trova «declassato a deuteragonista».

Per la verità, quanto sopra non emerge dalle lettere, ma dalla intelligente e doverosa ricostruzione che Caterina Cardona fa della moglie di Tomasi di Lampedusa, tanto più intelligente e doverosa se si tiene conto che la fama postuma del suo consorte aveva finito con l'offuscare la storia di una che era stata pur sempre una figura di spicco della psicanalisi nel nostro Paese, fino a essere presidente della Società psicoanalitica italiana.

Se si legge con attenzione quanto Manganelli scrive si vedrà però che la sua lettura «al femminile» di quel «matrimonio epistolare» è in realtà funzionale alla demolizione al maschile di Lampedusa stesso, non tanto o solo l'uomo, ma principalmente lo scrittore. Che poi altro non è che «l'autore in qualche modo ignaro del conflittuale, opinabile, invadente Gattopardo», romanzo che «è ancora oggi materia di sottili e impetuosi conflitti». Quanto al principe, «patetico cronista di angosce e sventure» è un uomo «colto, neghittoso sentimentale, goloso, poliglotta e cinofilo», «più lettore poliglotta che letterato»... Ancora a trent'anni di distanza dall'uscita postuma del Gattopardo Manganelli, da «letterato» e non da «lettore poliglotta», continuava a provare lo stesso fastidio dei letterati che lo avevano preceduto per quell'«invasione di campo» a opera di un principe-scrittore estraneo al loro mondo. Un fastidio, se non una vera e propria avversione, che era però anche lo stesso di Lampedusa nei loro confronti, una volta che li aveva conosciuti e misurati in quel convegno di San Pellegrino Terme solo per questo poi passato alla storia, e specchio di una Italia anni Cinquanta che dal neorealismo cronachistico era andata scivolando nel realismo social-politico in attesa di uno sperimentalismo con cui conciliare la capra dell'impegno rivoluzionario con i cavoli dell'arte d'avanguardia.

Chi ne voglia sapere di più, può leggere Operazione Gattopardo (Le Mani, 2013) di Alberto Anile e Maria Gabriella Iannice, che resta la più completa e convincente ricostruzione della battaglia ideologica, e non solo, scatenatasi a suo tempo intorno al capolavoro di Tomasi di Lampedusa e, finché i «letterati» di cui sopra ebbero un reale potere nel mondo delle lettere, in realtà mai sopitasi, proprio perché Tomasi di Lampedusa era un outsider, uno che di loro aveva fatto praticamente a meno. Come all'epoca riassumerà ironicamente Leonardo Sciascia, nelle vesti ahimè di sindacalista-corporativista: «Il Gattopardo mi fa venir voglia di lanciare lo slogan la letteratura ai letterati (e la terra ai contadini, s'intende (...), ma a patto che i letterati non abbiano riserve sulla terra da dare ai contadini)».

Un matrimonio epistolare si apre con un sogno, datato novembre 1950, che Caterina Cardona definisce «premonitore» e che nella lettera con cui Tomasi di Lampedusa ne rende partecipe la moglie, è strutturato come un racconto. Il sogno si svolge a Roma, in quell'albergo Quirinale che era il suo indirizzo capitolino. Gli viene recapitata una cartolina postale nella quale è comunicata, nero su bianco, la sua condanna a morte e la sua esecuzione, per il giorno seguente, in una caserma non lontana. Salutati i genitori che sono in albergo con lui, Tomasi di Lampedusa si presenta all'appuntamento: «Sono il condannato a morte che viene per l'esecuzione» dice a una guardia, e quella sviene... Viene poi fatto attendere in corridoio: l'attesa è lunga, non c'è nessuno. «Penso che è ridicolo stare ad aspettare così e che debba provare a scappare»... Lo fa e si ritrova a girovagare per le strade fino a sera, quando si infila in un locale notturno, dove trova il padre che annega il dolore per la presunta morte del figlio nello champagne... «Dillo a Mamà: sono scappato» gli sussurra all'orecchio e poi esce di nuovo. Alla fine del sogno non si ritrova più a Roma, ma a Palermo, alla Marina: «Nascondendomi ancora, ma sicuro oramai di essere scampato al pericolo».

Senza eccedere in interpretazioni psicanalitiche - «farmi psicanalizzare dalla moglie, fossi matto!» - alcune considerazioni si possono fare. La più immediata è la iniziale e supina accettazione della condanna a morte, un'ineluttabilità e insieme un dovere cui ottemperare. È l'ultimo portato, se si vuole, di una siciliana passività aristocratica, la resa di una classe sociale incapace di agire come di reagire, ma solo di morire. Quando alla fine la reazione giunge, è sì liberatoria, ma ha origini, diciamo, esterne: il soldato che sviene, la lunga attesa, il silenzio che porta con sé... È come se non fosse ancora giunto il suo turno, suonata la sua ora... Il ritrovarsi infine a Palermo, nei luoghi a lui familiari, gli dà la sensazione di non dover più temere nulla, scampato pericolo, insomma...

In quel 1950, i genitori che in sogno sono ancora vivi, in realtà sono già morti, Tomasi di Lampedusa ha superato i cinquant'anni, palazzo Lampedusa è stato distrutto dalle bombe alleate del 1943, e lui stesso è ormai un anziano signore, solitario «dall'aria di enorme felino assorto». Come al solito, legge molto, Balzac soprattutto, «un autore che bisogna leggere superati i cinquant'anni»: «Che talento, accidenti! E non soltanto da romanziere, ma anche da grande storico». E ancora: «Che cos'è, mio Dio, avere del genio!».

Sulla scorta di uno psicologo quale James Hillman a proposito dello sviluppo intellettuale di una personalità, Caterina Cardona avanza l'ipotesi che proprio in quegli anni, impercettibilmente, Tomasi di Lampedusa passi dalla passività attiva del lettore all'attivismo tout court dello scrittore che di quella passività si nutre, la utilizza per colmare le proprie lacune: «L'opus al quale si lavora è parte dell'operazione su sé stessi», per dirla con Hillman, ovvero lo slittamento progressivo di chi a un certo punto si rende conto che può essere anche lui l'artefice del proprio piacere, la lettura che si fa scrittura...

Lo spunto finale, il prendere la propria vita di scrittore in mano, così come in quel sogno l'improvviso sottrarsi a una esecuzione prima passivamente accettata, glielo darà quell'incontro di San Pellegrino Terme già ricordato. Lì, nella «classe dei colti» che celebra sé stessa e seleziona dall'interno i nuovi, giovani talenti, Cecchi che tiene a battesimo Bassani, Repaci Calvino, Comisso Parise, Tomasi di Lampedusa si sentì doppiamente un pesce fuor d'acqua. Li temeva e insieme li disprezzava: era loro pari, se non meglio di loro, ma era stato considerato nient'altro che un provinciale ansioso di piacere. Per di più, fra i «giovani» protetti, eccezionalmente e fuori dalle regole della consorteria, Eugenio Montale si era andato a scegliere il poeta Lucio Piccolo, ovvero il cugino di cui Tomasi di Lampedusa si era per l'occasione ritagliato il ruolo di chaperon, e che «giovane» non era, avendo superato i cinquant'anni. Ma anche gli altri due sessantenni cugini Piccolo, incisori e pittori dilettanti, erano stati nel frattempo scoperti dalla critica... Come riassumerà scrivendo a un amico: «Debbo confessare che mi sono sentito punto sul vivo: avevo la certezza matematica di non essere più fesso di loro. Cosicché mi sono seduto a tavolino ed ho scritto un romanzo».

Cominciato in quel 1954, terminato nel 1956, rifiutato prima da Mondadori e

poi da Einaudi, Il Gattopardo sarà pubblicato nel 1958 da Feltrinelli. Tomasi di Lampedusa era morto l'anno prima. Alla condanna a morte del sogno era scampato lo scrittore, ma questo il Principe non l'avrebbe mai saputo.

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