«Quando vedo disperarsi un salice, capisco Saffo». Marina Cvetaeva non aveva dubbi: e nella sua Lettera all'Amazzone, epistola-trattato sull'amore saffico ispirata da Natalie Clifford Barney, irresistibile intellettuale e seduttrice della Parigi novecentesca, parlava della sublime esperienza di Assoluto, dell'«entità perfetta che sono due donne che si amano».
Dell'amore tra donne, che da lei prende il nome, canta, in una maniera ancora insuperata, Saffo: ma chi era, davvero, Saffo, la divina Saffo dal dolce sorriso e dagli occhi viola, per cui Virginia Woolf imparò il greco e di cui diede il nome al suo gatto? Saffo fu direttrice e sacerdotessa di un tiaso consacrato ad Afrodite, alle Muse e alle Cariti, e maestra di giovani donne che venivano da Lesbo, Mileto, Salamina e altre regioni della Grecia per essere educate alla poesia, alla danza, alla musica, al rito, e preparate al ruolo futuro nella famiglia e nella società. Nel tiaso femminile, come del resto avveniva nella corrispettiva educazione maschile, l'educazione e l'iniziazione potevano implicare rapporti omoerotici: conosciamo i nomi di alcune, come Anactoria, Gongila ed Eunica, ma sono varie le allieve, oggetto di nostalgia, ammirazione, gelosia da parte della maestra Saffo, come spiega Angelo Tonelli, il curatore di Saffo. L'amore, le Muse, la bellezza, l'incanto, il rito (Marsilio, pagg 104, euro 12).
Sorprende e non in positivo il fatto che una collana gloriosa come il Convivio, che da sempre compare con testo originale a fronte, non presenti, invece, il testo greco: una mancanza francamente inspiegabile, soprattutto in un caso come quello di Saffo. La traduzione di Angelo Tonelli, invece, non delude e, anzi, concede finalmente a Saffo quell'inafferrabile delicatezza che merita: perché Saffo è colore, è suono, è incanto: come D'Annunzio, o Keats.
Saffo canta la potenza inesorabile dell'amore («Eros mi ha sconvolto la mente / come vento che si scaglia contro le querce, sulle montagne»); intona sublimi notturni lunari («la luna dalle dita di rosa rifulge tra le donne di Lidia e spesso si aggira nel ricordo della dolce Attis, e consuma il suo animo delicato nel desiderio di lei»); desidera, brama, trema («cola sudore gelido, tremo tutta»), come sognerà di fare Pascoli nel Solon («il mio non sembra che un tremore, ma è l'amore, e corre, e spossa le membra»). Saffo può essere dolce e selvaggia («ti bramavo, refrigerio per il mio animo riarso dalla passione»), tenera e sinuosa («la tua veste fa sussultare chi la guarda e io ne gioisco»), triste («Mezzanotte. Il tempo se ne va. E io dormo sola»), disperata («vorrei davvero essere morta») e molto erotica («su morbidi giacigli saziavi il desiderio di tenere fanciulle»).
Leggere Saffo, sentire il suono di Saffo, ascoltare l'incanto di quei duecentoquindici frammenti venti dei quali dubbi e tre spuri che ci sono pervenuti, è ancora un'esperienza estatica: l'esperienza estatica della poesia, come aveva spiegato bene, nella sua bella edizione di Saffo di qualche anno fa (Saffo. Più oro dell'oro), Rosita Copioli.
Figlia e amante del sole che evoca l'attimo in cui la luna piena trionfa sugli astri, Saffo è il sogno eterno della poesia, è l'istante eterno dell'amore.
La «decima Musa che stupiva anche Mnemosyne» riesce ad esaudire il sogno segreto di ogni uomo: fermare il tempo in un momento eterno, che non ritorna, ma dura per sempre. Perché, come scriveva Renée Vivien, sua grande traduttrice e, per certi versi, erede: «Io non cambio, vergini di Lesbo: io sono eterna».
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