"L'ipocrisia senza tempo della caccia alle streghe"

Il regista è anche protagonista della pièce di Arthur Miller che raccontava il maccartismo

"L'ipocrisia senza tempo della caccia alle streghe"

Quella di Arthur Miller era la caccia alle streghe rossa, che vedeva gli Stati Uniti del maccartismo impegnati a debellare il «mostro comunista». Quella di oggi, presentata da Filippo Dini in una edizione de Il crogiuolo che sarà in tournée fino al 22 dicembre (chiusura al Lac di Lugano) è l'eterna ricerca del capro espiatorio. Il genovese Dini, classe 1973, che si è appena aggiudicato il Premio della Critica 2022 proprio per la sua capacità di «zigzagare tra drammaturgia contemporanea e classici, saviamente adattati», è oltre che regista anche protagonista della pièce, nel ruolo del «brav'uomo» John Proctor che a Salem, Massachusetts, nel 1692 vede la propria moglie arrestata e condannata all'impiccagione insieme a decine di concittadini. Andata in scena per la prima volta settant'anni fa, il 22 gennaio 1953, la pièce di Miller rievoca il maleficio di cui è vittima un gruppo di ragazzine di Salem, all'apparenza mediatrici del Diavolo ma allo stesso tempo feroci accusatrici di altre donne del luogo, che le giovani indicano come colpevoli di stregoneria. Bigottismo e superstizione, rivalità e doppiezza del copione di Miller sono affiancati da Dini agli agganci con l'oggi, dal conflitto russo-ucraino all'infragilirsi del mito americano nel secondo millennio.

Andiamo subito al punto: chi sono le streghe, oggi? In scena lei non usa metafore: ci sono proprio delle ragazzine.

«Infatti. Le streghe oggi sono sicuramente donne, tanto per cominciare».

Lo dice Miller o lo dice lei?

«Il processo alle streghe di Salem nasce dallo strano comportamento di due ragazzine, riconducibile presumibilmente ai sintomi dell'adolescenza. Non essendoci psicologi, le rimandano all'autorità riconosciuta, quella religiosa. Il prete che cosa poteva fare, con i suoi strumenti? Dire: Sono streghe, ovvero: dentro una ragazzina che abbandona l'età infantile per diventare donna c'è qualcosa che non capisco e quindi lo devo estirpare dal corpo. È quella cosa che chiamiamo mistero, nell'arte di tutti tempi. Il femminile è definito sempre come un mistero. Perché? Per la semplice ragione che a definirlo, o a tentare di definirlo, sono sempre stati uomini».

È ancora un mistero? Alla quarta o quinta ondata di neofemminismo?

«Come negli anni Cinquanta, il tema centrale lo stesso che ho affrontato in passato in Casa di bambola - rimane la separazione tra uomo e donna, mai immaginata, rimarginata e neppure lontanamente affrontata. Una definitiva incapacità di fondo, da entrambe le parti: nessuna parità, nessuna possibilità di incontro. Sicuramente le streghe sono donne».

Questo oggi basterebbe a classificare il testo di Miller come politicamente scorretto.

«Eppure, come dice Ibsen, siamo di fronte, con uomini e donne, a due anime che agiscono, ragionano, pensano e parlano in maniera completamente diversa. Solo che l'uomo detiene il potere e fa le leggi e la donna deve sottostare a leggi che non la riguardano e sono state fatte da uomini. Se non ti capisco, diventi una strega».

Ma in Miller il nemico è un altro?

«Nel Crogiuolo l'accusa di stregoneria si basa sulla vicinanza al demonio: chi si è votato a Satana deve essere arrestato, incarcerato e impiccato. A meno che non confessi. La separazione tra gli abitanti di Salem nasce dal riconoscere un demonio in chi ci sta accanto».

Tema intramontabile.

«Basta ripensare al lockdown: Satana era quello che portava a spasso il cane o che andava a fare jogging, i no-vax per chi è vax e viceversa. Così in guerra Satana è Putin e stanno sorgendo altri Satana nel corso della crisi energetica. Il demonio nell'altro è un'occasione che l'essere umano non si lascia scappare per giustificare ogni frustrazione e ogni fallimento. E perde così l'opportunità di leggere la realtà».

Alla fine dello spettacolo il pubblico si alza in piedi. Perché?

«Da quindici anni volevo fare questo testo e

volevo farlo in modo popolare: entrare nella zona emotiva del pubblico e in quella sociale, dare al finale l'impronta dell'atto eroico che può essere compiuto anche dagli ultimi. Anche dai colpevoli. Anche dai vigliacchi».

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