L'Italia del "non fare" 193 cantieri fermi costano 4 miliardi

Tra cortei, cavilli e progetti sbagliati c’è un intero Paese che si ferma. Solo per il via libera ambientale ci vogliono oltre tre anni. Se il tasso di crescita 8 delle infrastrutture resterà quello odierno entro il 2020 le perdite raggiungeranno i 250 miliardi di euro

L'Italia del "non fare" 
193 cantieri fermi 
costano 4 miliardi
Un intero Paese delimitato dal nastro bianco e rosso, dove si viaggia a passo d’uomo su un’unica corsia perché l’altra è sventrata dalle ruspe. Ruspe che spesso, dopo aver aperto le voragini nell’asfalto, spengono i motori. È l’Italia dei cantieri infiniti, dei lavori iniziati, ma poi bloccati, delle grandi opere contestate ancor prima che il progetto sia finito, dei fondi stanziati che poi lievitano senza freno rendendo il costo finale di un lavoro anche dieci volte più alto di quanto preventivato. E gli italiani, sia al volante sia all’interno delle classifiche della competitività economica, restano in coda.

Creare le infrastrutture costa. Non crearle, però, costa di più. 14,2 miliardi di euro: il prezzo dei ritardi nelle grandi opere accumulati nel triennio 2005-2007. Sono più di 4 miliardi all’anno. Sono gli allarmanti conti ricavati dall’applicazione scientifica dell’analisi costi-benefici dell’osservatorio «I costi del non fare», centro indipendente di ricerca presieduto da Andrea Gilardoni, direttore del master in «Public utilities » dell’università Bocconi. L’Italia che viene fuori dalle cifre dello studio è lo stesso Paese che dopo trent’anni non ha ancora un’arteria stradale verso il Sud (la Salerno- Reggio Calabria quest’estate era costellata di nove «cantieri inamovibili» per 70km di carreggiata unica), dove i termovalorizzatori vengono bocciati perché non abbastanza verdi (e intanto c’è già chiha annunciato a Genova la prossima emergenza rifiuti) e dove qualche migliaio di persone può bloccare la costruzione di infrastrutture strategiche a livello europeo. Proprio con i nostri partner (e concorrenti) europei il confronto è impressionante: la linea ad alta velocità Madrid-Saragozza- Barcellona, modernissima ferrovia di 622 chilometri, è stata costruita in nove anni, in anticipo sul programma. In Italia la Tav spa è nata nel 1991, ma le tratte Torino- Novara e Roma- Napoli, in tutto 289 chilometri, sono state completate nel 2006.

Perché? «Tutti i Paesi europei - ha commentato Gilardoni - sono sottoposti a controlli sulle Grandi opere. L’Italia ha però una peculiarità negativa: la reiterazione. L’Iter non finisce mai, la pratica non arriva mai alla meta, in una specie di interminabile gioco dell’oca che costa al Paese una fortuna». Enell’insieme di carte necessarie per aprire un cantiere la Via - valutazione di impattoambientale - si colloca in prima fila: per la sola terza corsia della tratta autostradale Barberino- Firenze, parte di quella mastodontica e famigerata grande opera che va sotto il nome di «variante di valico» sono stati necessari 1.383 giorni, prima che il ministro competente desse il via libera.

Agli anni d’attesa per una firma su un’autorizzazione vanno sommati i ritardi per i ricorsi al Tar di comitati di cittadini, spuntati negli ultimi anni come funghi, pronti a opporsi - spesso con l’aiuto dei politici locali, lesti a cavalcare la relativa ondata di malcontento - alla costruzione di ferrovie, di parcheggi e di steccati. Sono 193, oggi, le grandi opere che devono fare i conti con cortei e sit-in: 193, cioè tanti, tantissimi. Troppi. Ogni volta uno stop, un ritardo, un disagio enorme e infinito.

E ovviamente un costo: 4,6 miliardi di perdita per le mancate realizzazioni di tangenziali e autostrade (600 chilometri tuttora cantierizzati), 4 miliardi per la mancatarealizzazione di termovalorizzatori, 2,9 miliardi per i ritardi nella costruzione della Tav, 2,5 infine per il blocco delle infrastrutture nel campo energetico. Una valanga di quattrini persi per sempre in nome di un cavillo.

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