La Londra-mondo di Morand era la capitale delle libertà

Il libro del 1933 è un atto d'amore dell'anglofilo scrittore francese. Fra pagine di storia e di architettura, di curiosità e di sfide

La Londra-mondo di Morand era la capitale delle libertà

Chiunque almeno per un periodo della sua vita sia stato anglofilo (è il mio caso, da molto giovane) si ritroverà in questo libro di Paul Morand, Londra (Edizioni Settecolori, pagg. 264, euro 28) che, come scrive Leopoldo Carrà, autore della brillante traduzione, è, più che un libro di viaggio, un grande «atto d'amore». Ritroverà quello specifico profumo di Inghilterra che ha conosciuto passeggiando con gli occhi nelle vetrine di Bond Street, pranzando in un ristorante dello Strand, entrando da Fortnum & Mason, drogheria così elegante che sembra offensivo chiamarla drogheria, sostando tra le pareti odorose di libri di Hatchard's, riposando su una sdraio in Hyde Park.

Nel 1933, da Villefranche-sur-mer, perla della Costa Azzurra, e già sede della Marina Militare del Regno di Sardegna, Paul Morand, scrittore baciato da un grande successo mondano, ambasciatore, dandy, rimemora e celebra la sua Londra. E comincia con il tracciarne un affresco storico, con osservazioni antropologiche, di costume, letterarie, e con ritratti mirabili come quelli di Elisabetta I o di Samuel Pepys, gaudente, bevitore, funzionario e autore di memorabili Diari, suo evidente modello. Morand racconta Londra dalle paludi celtiche in cui sorse sino a quando i Romani la chiamarono Londinium, dalle invasioni vichinghe e normanne sino alla gloriosa età elisabettiana, dal Seicento in cui era ancora una città popolare, gotica, di case di legno come la Parigi di Notre Dame de Paris di Victor Hugo, dalla grande Peste e dal grande Incendio che ne provocò la trasformazione grazie all'ordine classico imposto da Christopher Wren sino alla Regina Vittoria, «fanciulla in fiore della civiltà occidentale e nonna dell'Europa monarchica».

Quando, nel 1903, il giovanissimo Morand sbarcò a Londra, gli parve di essere arrivato sulla luna. Allora vi era ancora vivo lo scandalo di Oscar Wilde e del suo processo per sodomia, tanto che il padre consigliò per prima cosa a Paul di cambiare strada se gli si fosse avvicinato un uomo con in mano un giglio bianco. Poi vi tornò da studente a Oxford nel 1908, attratto, più che dalle severe aule dell'Università dalla metropoli, dai sarti di Savile Row e dai paradossi dialogati del teatro di Bernard Shaw. Infine nel 1913 arriva a Londra da attaché all'ambasciata francese. È di nuovo nella cara, vecchia, sporca città, che ti annerisce i polmoni con la nebbia in cui sembra scolpita, ma in una posizione di privilegio, in un ufficio con la vista sul verde di Hyde Park e sull'Hotel Alexandra, dall'eleganza «sobria e un po' antica», simile a quella degli hotel di Sanremo. Conosce l'esodo dei week end verso la campagna in cerca di un nuovo oro che si chiama ossigeno, il riposo che imperversa con il suo rigore nelle domeniche, non disdegna di frequentare bassifondi, angiporti, il pub Charlie Brown, assiste a una sfilata di dimostranti, ovvero dei poveri rimasti in città, che cantano L'Internazionale sfumando in un tono di preghiera. Una sera è a un tavolo del Carlton con Joseph Conrad che gli mostra con delle scatolette di fiammiferi la disposizione delle navi della grande flotta britannica.

In certi tratti il libro, che ha spesso descritto fenomeni e tendenze sociali e politiche tipicamente inglesi, per esempio l'individualismo versus lo Stato, la simbiosi del mercante e dell'aristocratico, il combinarsi di cosmopolitismo e nazionalismo tipico dei grandi porti, non disdegna di diventare una guida. Una guida ricca di spunti, bulimica, bizzarra, che non vuol perdersi niente del proprio oggetto d'amore. Ecco i grandi giardini, i club, i luoghi dello sport, con avvincenti e virtuosistiche descrizioni di corse di levrieri o di motociclette, e poi i quartieri uno per uno, Chelsea, il più bello, con le sue passeggiate sul lungofiume più riposanti di una giornata al mare; Bloomsbury, il cervello di Londra, con Virginia Woolf, D.H. Lawrence, Bertrand Russell; Belgravia, con le sue dimore di Lord dalle mille eccentricità; Soho, con i suoi locali così vari che Morand, gourmet un po' snob, può suddividere il suo pranzo tra almeno cinque di essi, prendendo il taxi tra quello dove beve l'assenzio, quello dove gusta le ostriche, quello dalle succulente bistecche, quello dove ha i dolci, e l'ultimo dove prende il caffè, senza mai uscire dal quartiere. E poi Westminster, carrozzeria di Londra, e la City, che ne è il vero motore. Il Big Ben con i suoi dodici rintocchi è «il coprifuoco della civiltà occidentale». Mirabile la descrizione del cerimoniale sontuoso e lentissimo della Camera dei Pari. E rivelatrice la considerazione secondo cui la disposizione non a emiciclo, come in quelli continentali, ma a quadrilatero rende il Parlamento inglese molto più simile a un club che a un teatro, con quello che ne consegue nello stile dello scontro politico.

Alla fine, l'anglofilo Morand si chiede se Londra sia l'anti Parigi. E delinea le differenze tra le due capitali europee con lucida forza di sintesi. Londra è fondata sull'acqua, Parigi sul sangue (di ugonotti, re e aristocratici, operai quarantotteschi, comunardi); Londra crede nell'ordine sociale, Parigi nelle barricate; Londra ha i club, Parigi i bistrot; Londra ha fiducia, Parigi diffidenza; Londra è caso e universo, Parigi raziocinio e umanità. Morand non cita lo storico Jules Michelet, che traccia una differenza fondamentale tra l'idea di libertà francese, ideale e universalistica, e quella inglese, pratica, commerciale. Londra è la sua mascotte, tutto ciò che ha ricevuto da lei gli ha portato fortuna, lo sa, lo confessa, come si confessa un amore. Che ne sarà di Londra nel futuro? si chiede.

Come ne scriverebbe oggi? ci chiediamo noi. È vero che gli inglesi sono «i più antichi uomini liberi del mondo». Ma cosa resta di quella libertà in un'epoca di tecnica e di finanza, di massa e di tramonto come è la nostra?

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