Ray Lennox, ex detective con un passato di dipendenza da alcol e droga, ha lasciato Edimburgo per trasferirsi a Brighton. Ma gli incubi della sua infanzia tornano a tormentarlo e cerca di vendicarsi per sempre di chi gli ha rovinato la vita. Questo è Resolution, il nuovo romanzo di Irvine Welsh (come sempre, fin da Trainspotting, pubblicato Guanda, pagg. 408, euro 20) e il terzo noir con protagonista Lennox (il primo, Crime, è diventato una miniserie tv). L'autore scozzese è in Italia: ieri ha inaugurato Radici, il festival del Circolo dei lettori di Torino.
Irvine Welsh, chi è Ray Lennox?
«Un uomo molto problematico. È stato abusato da ragazzo da tre uomini in un tunnel e non lo ha mai superato. In seguito ha dedicato tutta la sua vita a scovare molestatori sessuali: è diventato un poliziotto proprio per questo, convinto di poter trovare un sollievo catartico, ma non è stato così, anzi, la sua sete di vendetta lo porta all'alcolismo e a comportamenti autodistruttivi».
Le ossessioni sono un suo tema: la droga, l'alcol, la vendetta...
«Il problema della vendetta è che, quando qualcuno ci fa qualcosa di terribile, vogliamo reagire, ma il rischio è di diventare come chi ci ha fatto del male e di replicarne la violenza. Dice una vecchia frase: se ti fai un nemico, prendi due tombe, una per te e una per lui».
Non bisogna reagire?
«La conseguenza dell'inazione è sentire di non riuscire a difendersi. Quindi l'unico modo è cercare di entrare in contatto con sé stessi nel profondo, per esempio attraverso la terapia. Questa è la vera ricerca di Ray, quella per risolvere sé stesso: non un caso da detective, bensì i suoi problemi come individuo».
La sua battaglia riguarda tutti?
«Ci percepiamo vittime perché sentiamo che la società abusa di noi, perciò tutti cerchiamo di guarire noi stessi: siamo sulle tracce del nostro mistero. Più il mondo è in declino, meno tutto ha senso, ed è ciò che accade a Ryan, su scala più ampia: decifrare le fonti del dolore, dell'ansia e della dipendenza attraverso il suo agire».
Qual è l'ossessione di oggi?
«È quella con noi stessi. C'è una cultura dell'individuo portata all'estremo, in cui ciascuno si crede in diritto di non provare alcuna forma di dolore, perché il dolore è visto come qualcosa di patologico. Ma esso fa parte dell'umanità: senza dolore non c'è crescita; senza dolore ci sono solo androidi grezzi. In questa nuova società liberale patologizziamo l'essere umani e vogliamo sostituire noi stessi creando dei robot».
Risultato?
«Apparentemente celebriamo l'individuo, mentre in realtà distruggiamo la salute mentale individuale».
Perché nei suoi libri c'è sempre tanta violenza?
«Beh, è molto drammatica. Ci sono sempre molto sesso e molta violenza... Mi piace porre le persone in situazioni terribili, poi metterle in una stanza con altri nella stessa condizione e vedere che cosa succede. D'altra parte, in un dramma il movimento viene dal conflitto».
È vero che voleva fare il musicista?
«È solo che non sono mai stato abbastanza bravo. Una cosa che vale per tutto ciò da cui sono veramente ossessionato: la musica, la boxe e il calcio. È la mia maledizione».
Un musicista in particolare?
«David Bowie. Ne sono ossessionato da quando ho dieci anni. È la congiunzione di tutto: il glam, il punk newyorchese, il punk rock britannico, l'elettronica, la tecno, il soul, Burroughs e Ginsberg...».
La sua Edimburgo è a sua volta un personaggio?
«Mi piace che la città sia così, uno dei personaggi. Ero ossessionato dall'Ulisse e, quando ho vissuto a Dublino e ho fatto il tour dei luoghi di Joyce, ho sentito che il libro diventava vivo. È quello che volevo per Edimburgo, fin da Trainspotting».
Oggi i trainspotter chi sono?
«Tanti. I giovani dipendenti dall'alcol, dalla droga, dalla pornografia o dal gioco d'azzardo on line, che poi vanno in un negozietto asiatico a comprare cibo spazzatura a basso costo. Internet era nato per liberarci e darci delle cose, invece ci sta prendendo tutto. Il mondo che abbiamo creato è favoloso per uno scrittore, con tutto il suo strano schifo, ma per viverci...»
Si può essere fuori dal mainstream?
«È molto difficile.
La controcultura non esiste on line ma nelle strade; ed è dura perché, se non esisti on line, oggi non esisti. Ci basterebbe però buttare lo smartphone e infilare la sim in un vecchio Nokia per aumentare esponenzialmente la nostra salute mentale».
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