Quella lotta per i tesori sommersi nell'oceano

Galeoni e navi spagnole, portoghesi e inglesi che nei secoli passati naufragarono fanno gola a tanti

Quella lotta per i tesori sommersi nell'oceano

C'erano tutti gli ingredienti per scrivere un romanzo d'avventura. Un esploratore testardo, un mare agitato nel cui ventre riposava un galeone spagnolo, affondato da quattro secoli con un preziosissimo tesoro. Era la nave della marina spagnola di Filippo IV, la Nuestra Señora de Atocha, il tipico sfarzoso galeone seicentesco. Cinquecentotrenta tonnellate d'orgoglio spagnolo, il fiore dell'Armada Invencible. Nell'agosto del 1622 era partita da Cartagena per riscuotere le tasse delle colonie spagnole nei Caraibi. Dopo Porto Bello, (l'attuale Panama), il galeone puntò su l'Avana per riunirsi, in ritardo, con la flotta delle ventotto navi reali e salpare per la Spagna.

Il carico nella pancia dell'Atocha era preziosissimo: 125 dischi d'oro, 24 tonnellate d'argento in lingotti, 180mila pesos in argento, 582 barre di rame, 450 bauli d'indaco, 535 balle di tabacco, 20 cannoni di bronzo e 1200 libbre di argenteria lavorata. C'erano inoltre soldi e gioielli dei 265 passeggeri per un valore, attuale, di un miliardo di dollari. La flotta salpò dall'Avana il 4 settembre del 1622 e dopo due giorni si scatenò un violento uragano. L'Atocha finì sulla barriera corallina a Dry Tortuga, 56 chilometri da Key West. La scogliera squarciò il galeone che affondò in un attimo. Su 265 passeggeri, si salvarono soltanto cinque marinai. Dall'Avana, le autorità spagnole, inviarono cinque navi per recuperare superstiti e carico, ma la posizione e il maltempo impedirono il recupero e poche settimane dopo, un nuovo uragano sparpagliò ulteriormente i resti dell'Atocha. Nei successivi sessant'anni fu cercata invano. Il galeone e il suo carico prezioso erano scomparsi nel ventre dei Caraibi davanti alla Florida. La Santa Margherita, uno dei galeoni della flotta spagnola, invece, fu individuato e metà del carico recuperato. Nel corso dei secoli i cacciatori dell'Atocha raccolsero solo le briciole del bottino, nessuno avvistò mai la nave.

Dovevano passare quasi 350 anni, quando nel 1969, Mel Fischer, ex allevatore di polli, che si era venduto la fattoria per l'impresa, con la nave Treasure Salvors iniziò a battere le acque tra Cuba e la Florida. Fischer setacciò le sabbie del fondale usando deflettori legati alle eliche della nave e un magnetometrico protonico. In quasi 17 anni di ricerche, Fischer e il suo equipaggio, trovarono alcuni indizi del galeone, ma dell'Atocha nulla. Nel 1975 il figlio Dirk, sua moglie e un sub persero la vita in un incidente marino, ma Fischer, testardo contadino di mare, non mollò. Il 20 luglio del 1985, Kane, il secondo figlio di Fischer, dalla scialuppa di soccorso gridò via radio al padre: «Abbiamo trovato la barriera corallina principale!». Così in pochi giorni, i Fischer individuarono la scogliera con i resti dello scafo del naufragio del secolo e tra i resti, c'erano preziosi per 450 milioni di dollari, la metà del tesoro. Il 20% lo dovettero dare alla Florida.

L'Unesco ha stimato che ci siano almeno tre milioni di navi affondate tra il XIV e il XX secolo con 100 miliardi di beni preziosi. La maggior parte sono galeoni spagnoli, portoghesi, britannici, olandesi e francesi e i loro tesori sono rivendicati da molti Paesi e cacciatori del mare. Per il tesoro da 17 milioni di dollari del galeone spagnolo San José, affondato nel Settecento davanti a Cartagena dalle navi britanniche, si stanno accapigliando Spagna, Colombia e la società americana Odyssey (la stessa che, dopo che Robert Ballar scoprì la posizione del relitto del Titanic, raccolse le sue immagini).

Nel mondo sono una ventina i cacciatori di tesori marini, un mestiere costoso e difficile che spesso non porta a nulla. Per tutelare i suoi 70mila galeoni affondati, tesori inclusi, la Spagna ha preparato una mappa in cui sono indicati i punti vietati agli estranei. L'Unesco afferma che «le navi sommerse appartengono al Paese della sua bandiera in modo che nessuno possa avvicinarsi senza il permesso delle autorità competenti». Però i cacciatori degli abissi rivendicano altri diritti. La Spagna può contare sull'antico Archivio de Indias, un registro con tutte le sue navi di proprietà fino all'Ottocento. Grazie a questo documento, nel 2012 si stabilì che la fregata Nuestra Señora de la Mercedes, affondata nel 1804 a Cadice con 600mila monete d'oro e d'argento, era di proprietà della Spagna, contraddicendo l'Odyssey che l'aveva trovata nel 2007. Non è sempre facile per un tribunale straniero riconoscere l'immunità sovrana di un galeone naufragato sulle sue coste, «dipende se il Paese proprietario abbia ratificato le convenzioni internazionali che includono questa figura», spiega a Il Giornale Pedro Maura di Meana Green Maura & Corporation, studio legale specializzato in contenziosi sui tesori marini. Colombia e Perù hanno le coste piene di galeoni affondati spagnoli e portoghesi, ma non hanno approvato le convenzioni internazionali, mentre Spagna e Portogallo sì. In assenza di regole internazionali, il tribunale usa le leggi nazionali. Molte dispute sono di stati che all'epoca del naufragio non esistevano, come il Perù che rivendicava un carico di monete d'argento coniate quando era una colonia dell'Impero spagnolo.

I giudici, infatti, attribuiscono il carico al Paese che lo rivendica come patrimonio storico. E molto spesso, Odyssey (e altri cacciatori) adottano la tecnica di non rivelare mai il nome della nave affondata, ma solo gli oggetti recuperati. E ce ne sono ancora per 100 miliardi.

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