Londra - Le idee, quelle le ha ben chiare. Il resto chissà, probabilmente no. Lou Reed è così, difficile da capire e d’altronde lui stesso si è spiegato dicendo che «attraverso le bugie racconto la verità». Allora, quale sia la verità di Lou Reed decidete voi. Quando sale in auto, qui a Londra in direzione aeroporto, è un attempato rockettaro (con due occhiali uno sopra l’altro) che saluta la gente a baci e abbracci davanti al suo hotel. Poi, dopo che l’autista ha messo la prima, comincia a dare disposizioni ai suoi assistenti come un «cumenda»: mi raccomando, portate la Fender a Madrid, qual è l’albergo migliore di Roma, e via elencando. Ora che ha 65 anni, o forse 66, ha iniziato un tour mondiale «molto breve» dice, che passerà pure dall’Italia (il 10 luglio agli Arcimboldi di Milano) ma che parte da molto più lontano: dal 1973. Avendo del tempo libero (parole testuali), Lou sta cantando in giro per il mondo tutte le canzoni del disco Berlin, uscito 24 anni fa tra le prevedibili ovazioni di critici e la prevedibile indifferenza del pubblico. E si capisce: parlava di gelosia nel periodo dell’amore libero e del chissenefrega se mi tradisci. Adesso che la situazione è cambiata e che gli Otello sono di nuovo più numerosi delle Desdemona, Lou Reed mette in scena «il devastante avviso di ciò che il rock può essere», come ha esultato l’Independent a nome di tutta la critica impegnata (spesso smemorata).
Ma davvero Lou Reed il suo show è così bello?
«Non lo so, lo chiedo io a voi».
Perché le è saltato in mente di risuonare dal vivo un suo album di più di trenta anni fa?
«In realtà me lo ha chiesto un impresario che ama il disco Berlin fin dalla sua pubblicazione. Poi io non avevo nulla da fare in questo periodo e quindi ho accettato».
Tanto più che sul palco c’è pure una sezione fiati, roba di lusso.
«Quella della London Metropolitan Orchestra».
Alcuni critici dicono che le parti chitarristiche sono esagerate e pretestuose.
«A me piace mettermi sul fondo del palco e suonare la chitarra senza il bisogno di stare in prima linea. Lo faccio per persone cui voglio molto bene come la mia compagna Laurie Anderson o il geniale John Zorn: loro presentano la loro musica, io sto sul fondo a fare il chitarrista. Bellissimo».
Ma allora lei non è un solista?
«Uno diventa solista solo se accetta di lavorare in squadra. Io ogni tanto lo faccio ancora».
In trent’anni la reazione del pubblico è cambiata, ora il suo Berlin piace.
«Vero. La gente ora è molto diversa e non capisco il perché. Io ero giovane, il mio matrimonio di allora stava andando in fumo e di sicuro avevo idee diverse da oggi. Ma nel 1973 la gelosia era un sentimento uguale a oggi. La gente lo legge sui libri, lo vede nei film e si appassiona. Non capisco perché non l’abbia fatto anche allora e a essere sinceri non capisco perché lo faccia ora».
In fondo la storia di Otello e Desdemona è sempre uguale e appassiona oggi come quattro secoli fa.
«Appunto: io ho raccontato la versione moderna di quella vicenda lì, molto cupa, molto introversa ma simile».
Gli italiani però l’hanno sempre amata. Lei lo sa che è tra i rockettari più amati da noi?
«Sarà perché sono per metà italiano»
Da parte di madre o di padre?
«Da parte di mente. La mia mente è spesso più sintonizzata con gli italiani che con gli americani. Sarà per questo che la domenica sera immancabilmente guardavo i Sopranos».
Ma adesso quella serie Tv è finita per sempre?
«Non è detto, potrebbe anche ritornare. L’ultima puntata ha lasciato tutte le porte aperte».
La sua
«Non sono stato invitato. E, ora che i giochi sono fatti, mi piacerebbe proprio capire il perché».
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