Il 18 Giugno 2010 moriva lo scrittore portoghese José Saramago. Il 15 Giugno 2015 si concludeva, con i vari ballottaggi comunali, l’ennesima tornata di elezioni amministrative. La paratattica giustapposizione di queste due date non si basa sulla loro semplicità contiguità calendaristica. Ieri, infatti, è stato possibile ratificare l’ennesimo incremento (circa del 10%) del partito dell’astensione che si avvicina alla maggioranza assoluta con il 47%, confermando il suo trend in continua ascesa. Circa dieci anni fa, invece, Saramago aveva dato alle stampe Saggio sulla lucidità, seconda parte del dittico romanzesco inaugurato nel 1995 dal celeberrimo Cecità. Nel suo Saggio Saramago ipotizzava la crisi dell’intero sistema democratico di un imprecisato paese europeo a seguito del (non)-risultato scaturito dalle elezioni: l’83% della popolazione aveva votato scheda bianca, “Attenzione Astensione!”. La prosa attorcinata, punteggiata e dialogata di Saramago annunciava, qualche anno in anticipo, un paradosso concretamente possibile. Ora, forse, l’accostamento delle due date comincia ad apparire più chiaro. Che quel Solone (voce del vocabolario renziano) di Saramago, per caso s’intende, non ci abbia mica azzeccato? Che le nostre democrazie non siano forse messe a repentaglio dall’innocuo candore di schede lasciate in bianco?
Anche quest’anno l’indomani delle elezioni è stato accompagnato dal consueto coro trionfante di plurivincitori: il PD di Ralph, Potsie e Renzy vince per numero di regioni, la cosa Berlusconi-To(n)ti vince in Liguria, Salvi-ini (il diminutivo è d’obbligo) vince in percentuali, il Grillo vince per stabilità. Eppure hanno tutti perso. Sebbene la sconfitta unilaterale sia suffragata da dati inconfutabilmente schiaccianti, nessuno dei vari perdenti di giornata ha avuto la buona educazione di congratularsi con il partito che, con pacata eleganza, ha raccolto le preferenze di milioni di cittadini italiani: il partito dell’astensione. Al massimo scribi e politicanti si sono limitati a segnalare i dati lampanti e lapidari apostrofando come “anti-politica” la costituzionalmente riconosciuta possibilità di astensione al voto o augurandosi di “riconquistare la fiducia di un elettorato che si sente ormai tradito”. Il problema è che questo elettorato sfiduciato potrebbe governare tranquillamente senza bisogno di partiti della nazione, coalizioni trasversali, patti di palazzo o mafie capitali. Ma allora, se un vincitore esiste, perché non viene celebrato e riconosciuto?
L’Italia, generatrice per eccellenza di paradossi, insieme alla (de)voluzione politica più stolta degli ultimi cinquant’anni, ha dato i natali a filosofi politici tra i più brillanti del dopoguerra, quando si dice “tra il dire e il fare…”. Tra i vari Toni Negri e Paolo Virno, Giorgio Agamben è probabilmente colui che meglio ha descritto i meccanismi che regolano le democrazie moderne. Delineandone i tratti caratterizzanti e operativi, Agamben definisce un sistema che si alimenta della stessa precarietà che genera e che necessita, quindi, della ricerca spasmodica del consenso, dell’elezione, del voto. In questa intersezione tra elettività e precarietà su cui poggia l’interpretazione filosofica di Agamben, si costituisce analogamente la letteratura vaticinante de il Saggio di Saramago. Nell’iperbolica descrizione di uno stato in cui l’autorità istituzionale e governativa non deriva dalla diretta rappresentanza che l’elettore delega al politico, ma dall’auto-consacrazione del politico tramite i media conniventi e i sondaggi televisivi (vi ricorda qualcuno?), il cittadino dissidente si ritrova isolato e costretto ad un mutismo elettorale che trova una voce taciturna nell’astensione, nella verginità di una scheda bianca. Saramago, non a caso, si concentra sulla reazione sconcertata del governo, presumibilmente, democratico a quell’83% di (non)votanti che silenziosamente e ostinatamente ne svilisce il potere e ne sbeffeggia l’autorità costituita. Il letterario governo di Saramago oscilla tra la presunzione, la sorpresa e la sottovalutazione per passare in seguito al timore, alla violenza e ad un vero e proprio isterismo autoritario che porta l’anonimo Presidente della Repubblica ad annunciare pubblicamente: “Siete voi, sì, soltanto voi, i colpevoli, siete voi, sì, che ignominiosamente avete disertato dal concerto nazionale per seguire il cammino contorto della sovversione, della indisciplina, della più perversa e diabolica sfida al potere legittimo dello stato di cui si abbia memoria in tutta la storia delle nazioni”.
Prima di arrivare anche in Italia all’ignominiosa diserzione descritta da Saramago, mancano ancora diversi punti percentuali, 36 per la precisione. Eppure quel partito taciturno, che fa dell’astensione, del rifiuto e della scheda bianca un emblema di verginità politica, continua a crescere inesorabilmente senza twittare o sproloquiare in televisione. Intanto, i vari Renzy, Salvi-ini, Grillofili, tutti accompagnati dai rispettivi scribi di fiducia, continuano a starnazzare e sbraitare nei confortabili salotti televisivi o internautici, dibattendo come fossero in un circolo privato della democrazia e della rappresentanza. Non ci si cura di quella metà silenziosa e corposa che manca, ma che esiste, che non parla, ma che ha una voce costituzionalmente riconosciuta, che non vota, ma si astiene. Questa metà muta sia dell’elettorato reale che di quello letterario di Saramago non deve essere, perciò, necessariamente associata ad un qualunquismo a-ideologico e apolitico come vorrebbero ridurla vari politicanti. Al contrario, il silenzio elettorale può esprimere un’idea democratica semplicemente stanca e disillusa dalla presunta democraticità della politica del consenso dove il voto diventa il dovere di indicare per esclusione chi ci possa rappresentare alla meno peggio e non, viceversa, il diritto di scegliere il miglior candidato.
Forse quindi, prima di auto-proclamarsi vincitori elettorali e, conseguentemente, legittimi e democratici rappresentanti di un popolo (italiano in questo caso), si dovrebbe considerare il voto non solo come un dovere a sfondo ricattatorio, ma soprattutto come un diritto. Maurice Blanchot in Le Refus sosteneva che il rifiuto è un gesto politico e sociale che implica una rottura, il respingimento di una conciliazione, un’attività grazie alla quale: “Siamo stati ricondotti a quella franchezza che non tollera più la complicità”. Per questo l’atto di astenersi, e quindi rinunciare ad un diritto democratico fondamentale, può e deve essere riconosciuto come una vera e propria attività politica che contesta l’assegnazione stessa della vittoria elettiva e l’auto-conferita rappresentanza di una determinata fetta del Paese, minando le basi su cui poggia la natura stessa dei poteri governativi ed istituzionali della nostra democrazia (?) del consenso.
Altrimenti, se si continuano ad ignorare le potenzialità attive, dissidenti e sovversive dell’astensione può darsi che quel paradossale 83% vaticinato da quel Solone-un-po’-gufo di Saramago diventi una concreta realtà, dopo a Renzy & Co. chi glielo dice che hanno perso?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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