Chi volesse andare alle radici del nostro Stato unitario, chi volesse conoscere da quali uomini esso venne fondato, e in quali valori quegli uomini erano cresciuti, insomma chi volesse sapere da dove veniamo, sarebbe illuminato dalla lettura di un testo finora inedito di uno dei padri della patria: Luigi Einaudi.
Nato nel 1874 a Carrù, dove ancora oggi si fa la festa del bue grasso, e cresciuto a Dogliani, dove si fa il Dolcetto, Einaudi è figlio della profonda provincia italiana, e ancor più di quella piemontese. E proprio così, Ricordi di vita piemontese, si intitola il testo che l'editore Aragno pubblica in una raccolta di articoli (Per «La Rivoluzione liberale», Scritti, prefazione di Francesco Perfetti, in uscita) che Einaudi scrisse negli anni 1922 e '23 per la rivista di Piero Gobetti. Sono in gran parte articoli a tema economico, in cui si parla di socialismo e di liberalismo, di collettivismo e di corporativismo fascista: ma l'ultimo - Ricordi di vita piemontese, appunto - è tratto da una prefazione inedita, quella che Einaudi scrisse a un volume solo ora in corso di pubblicazione: le Memorie di Francesco Fracchia.
Chi sia stato questo Francesco Fracchia, Einaudi lo dipinge già nelle prime righe: «Avvocato e notaio, nella sua Dogliani era divenuto l'uomo in cui tutti, poveri ed agiati, contadini e negozianti, proprietari e artigiani avevano fiducia ed al quale ricorrevano per consiglio. I suoi concittadini lo vollero anche consigliere comunale, assessore, sindaco e consigliere provinciale. Sol che avesse voluto, avrebbe certamente seduto in parlamento; ed assistii io al rifiuto netto che egli appose all'invito a lasciarsi presentare candidato. Non che egli stimasse poco gli uffici pubblici. Ma egli sentiva che la sua missione era un'altra: quella di essere il notabile dei luoghi dove era nato e dove aveva trascorso l'esistenza».
Di simili personaggi e di una simil provincia era fatta l'Italia da poco unita. Fracchia «riceveva i clienti, ritto in piedi dietro lo scrittorio, nel vecchio studio. Ai contadini, che tutti conosceva di persona per miglia e miglia all'intorno, indirizzava la parola col tu famigliare; e fattosi spiegare il caso, brevemente e con rapida parola, dissuadeva dal litigare e indicava il modo di sciogliere il nodo che li infastidiva. Ai bisognosi non chiedeva la mercede dell'opera compiuta a favor loro o del consiglio dato e coloro che poco potevano pagare, sapevano che non perciò sarebbero stati considerati e serviti con minor zelo dei più fortunati».
È il 1923 quando Einaudi scrive così, e il mondo di cui parla pare già scomparso, perlomeno ai suoi occhi e al suo cuore: «Tutto rendeva severa testimonianza delle abitudini che vanno spegnendosi della vita provinciale piemontese del settecento e della prima metà dell'ottocento. Noi con l'insolenza inconsapevole dei bambini e dei fanciulli, indirizzavamo la parola ai vecchi nonni col tu. Ma i nostri genitori non mai salutavano e parlavano ai nonni se non col lei, che era segno di rispetto e di devozione. A tavola, soltanto il padre e la madre stavano seduti; perché i figli, finché non giunsero ad essere giovani fatti, sempre facevano corona ritti in piedi ed in atteggiamento composto. Parca la mensa, limitate le ricreazioni al giardino, rare le passeggiate, solenni e ritardate a lungo le gite in campagna».
«Queste che io osservavo nella casa avita erano le abitudini universali della borghesia piemontese per gran parte del secolo XIX. Si comprende come quelle abitudini formassero una classe dirigente che lasciò tracce profonde di onestà, di capacità, di parsimonia, di devozione ai doveri della vita politica ed amministrativa del Piemonte che fece l'Italia. La formazione di un esercito saldo, tradizionalmente devoto al Re ed al paese non si spiega se non si ricorda che i rapporti fra i soldati e gli ufficiali erano la prosecuzione di quelli che, nel borgo nativo, intercedevano fra gli appartenenti alle classi sociali da cui soldati ed ufficiali provenivano».
È che la cosiddetta casta, di ogni tempo, non è mai estranea al paese: è espressione del popolo: «Pareva naturale che da certe famiglie uscissero fuori professionisti, impiegati, servitori dello Stato. Stipendi, anche per quei tempi modestissimi, erano ricevuti senza querele e sansa dispregio, ché si guardava all'ufficio, coperto come ad un onore e ad un dovere.
L'uomo, la famiglia non si concepivano sradicati dalla terra, dalla casa, dal comune; e sono questi sentimenti che partoriscono anche l'attaccamento e la dedizione alla patria e lo spirito di sacrificio, in cui soltanto germogliano gli Stati saldi».Sono parole rivolte anche alla classe dirigente di oggi, ma in realtà a tutti noi, che siamo tanto cambiati negli usi e nei costumi, e che certamente tanto abbiamo guadagnato, ma forse qualcosa abbiamo perduto.
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