Lungo le acque del Volga scorre l'impero di Putin

Marzio G. Mian ha percorso il grande fiume per capire dove sta andando la superpotenza ferita

Lungo le acque del Volga scorre l'impero di Putin

Volga blues (Gramma-Feltrinelli, 316 pagine, 20 euro) è il bel titolo scelto da Marzio G. Mian per raccontare dall'interno, seimila i chilometri percorsi, un mese all'incirca il tempo impiegato, un Paese di cui sappiamo poco, ma che è sulla bocca di tutti. La metafora del Volga come totem e destino di un popolo, richiama alla mente quell'immagine gogoliana della trojka in Le anime morte, la Russia che vola via «come un'ardita , insuperabile trojka. Fuma sotto di te la strada, rimbombano i ponti, tutto si distanzia e rimane indietro (...) che significa questa terrificante corsa? E quale ignota forza è racchiusa in questi cavalli, ignoti al mondo (...) Divora lo spazio la trojka, tutta infusa dell'afflato di Dio!...Russia dove voli tu? Rispondi. Non risponde». Allo stesso modo che per il grande fiume, sono la vastità e l'estraneità ciò che si impone, la dilatazione dei tempi e degli spazi, una sorta di percorso che sembra non avere un fine e insieme non volersi mai arrestare...

Dalla sorgente nella regione del Valdaj, fra San Pietroburgo e Mosca, il Volga serpeggia e si distende sino ad Astrakan, sul Mar Caspio: nel suo percorso incontra la Russia rurale e quella industriale, quella che fu la Russia zarista e poi marxista leninista e oggi è la Russia imperiale di Putin, le izbe e le fabbriche, la città di Ul'ianovsk, un tempo Simbirsk, che diede i natali a Lenin e al suo avversario Kerenskij al tempo della Rivoluzione d'ottobre, allo scrittore Gonciarov, l'autore di Oblomov, ma anche la città di Kazan, che faceva dire Caterina di Russia, «sono in Asia», e la città di Stalingrado, oggi Volgograd, dove per molti versi si decisero le sorti della Seconda guerra mondiale...

Da inviato di lungo corso, e nonostante tutte le difficoltà e i rischi che comporta il muoversi senza quel visto giornalistico che se da un lato gli farebbe da possibile anche se non assoluto salvacondotto, dall'altro lo metterebbe sicuramente sotto controllo, Mian osserva, mentalmente registra, incontra, approfondisce, fa paragoni, ripassa opportunamente la storia. Il risultato è un ritratto che ha poco a che vedere con gli stereotipi e i paraocchi dell'Occidente, ovvero un Paese in crisi, arretrato, impaurito e insieme imprigionato dall'interno. Il ritratto verrebbe da dire, e al contrario, di un impero, con la megalomania nazionale che esso comporta, di cui la stessa guerra in Ucraina è, piaccia o meno, una guerra imperiale, ultimo atto di quella che era stata per oltre un decennio una guerra civile e di confine.

Per delinearlo meglio, Mian ricorre a due parole. La prima è passionarnost, termine coniato dallo storico Lev Gumilëv, il figlio della poetessa Anna Achmatova: indicava «la capacità, propria solo di alcuni uomini, di dare se stessi per una causa che superasse l'interesse individuale», una sorta di «destino-manifesto, ma scritto in cirillico». Come sottolinea Mian, che «un così importante contributo linguistico» alla glorificazione della storia e della mentalità russa, «provenga da chi sperimentò duramente e a lungo - in compagnia di molti altri intellettuali - i gulag siberiani e la tortura», se da una parte ne sottolinea la complessità, dall'altra rimanda a ciò che resta una costante della sua storia, il lato religioso e insieme ortodosso. Gumilov, insomma, sapeva che dietro l'Urss c'era la Russia, ovvero che dietro il comunismo c'era l'impero. Sarà anche vero, come osserva Mian, che quel termine rimane «oscuro per la maggioranza dei russi», quel che però risulta evidente è lo spirito di sacrificio di cui quegli stessi russi hanno sempre saputo dar prova e che, nella Grande guerra patriottica, quella contro Hitler, andò oltre ogni limite immaginabile. E non è un caso che allora Stalin mise in campo a fianco del suo esercito, «i preti ortodossi e gli eroi zaristi», i pope, le icone e la tradizione, insomma, ancora e sempre la Russia eterna.

L'altra parola è smute, qualcosa che ha a che fare con il disfacimento, un disordine che è nazionale e insieme esistenziale. Rimanda all'implosione dell'Urss all'indomani del 1989, quando El'cin soppiantò Gorbaciov in quello che Mian sintetizza come «il decennio stramaledetto dei Novanta, la Grande Madre Russia scaraventata sulla piazza del libero mercato. Una classe di rampanti, spregiudicati e spesso pregiudicati ex funzionari di partito, ex banchieri sovietici, economisti e scienziati si avventava sul bottino, impiantando banche private utili a finanziare le rapine e ad accumulare capitali all'estero con l'aiuto dei nuovi amici banchieri occidentali». Non si capisce nulla di Putin, della Russia di Putin, del suo consenso, drogato eppure reale, della diffidenza verso il sistema liberale, se non si torna a quegli anni, allo sconquasso che essi provocarono.

È un qualcosa che Andrej Kozyrev, l'allora giovane ministro degli Esteri di Elc'in, che oggi vive più o meno in esilio negli Usa, ha riassunto per Mian utilizzando la formula di dottrina degli spinaci, mutuandola da quanto l'allora consigliere di Clinton, Strom Talbott, andava dichiarando: «Gli Stati Uniti hanno un atteggiamento responsabile nei confronti della Russia, come quando fai mangiare gli spinaci ai bambini. È per il loro bene». Negi anni Novanta, quella di Clinton nei confronti della Russia fu una politica da collezionista di trofei, dall'intervento nei Balcani all'espansione della Nato a est.. Più che un futuro alleato, la nuova Russia venne trattata come un nemico sconfitto, quel comunismo sovietico finito sotto le rovine del suo stesso disastro militare, economico, ideologico. Ciò che nessuno oltre Atlantico voleva capire era che dietro quella Russia c'era ancora e sempre la sua idea di impero e di destino, con tutte le ossessioni e le distorsioni che ciò comporta. Aver pensato d liquidarne la pratica geopolitica come se si trattasse di un Pase qualsiasi, è stato, parafrasando Talleyrand, un errore che può rivelarsi una catastrofe.

Nel suo viaggio lungo il Volga, Mian incontra un po' di tutto, mercenari e pacifisti, sciamanni e pope, ex cantanti rock e guide turistiche ad alto tasso alcolico, professori e funzionari, presidenti di cooperative agricole e vedove di guerra... L'insieme rimanda un po' a quella «umanità posto-atomica» che Eduard Limonov ha raccontato benissimo nei suoi libri e che nel tempo si è come solidificata, una sorta di Russia underground tornata in superficie e in qualche modo pacificata nell'aver dovuto prendere atto che la decadenza in cui si dibatteva si è trasformata in orgoglio nazionale e in un isolazionismo che viste le dimensioni del Paese viene vissuto come l'essere un continente a sé. Le stesse sanzioni, osserva Mian, lavorano in quest'ottica, senza contare il loro aver fallito l'obiettivo. Volga blues è un libro onesto, tanto più onesto se si pensa che il suo autore non condivide nulla di Putin e del putinismo, non è per nulla sensibile a qualsiasi tipo di sirena nazionalistica, tantomeno è attratto dal messianismo ideologico-religioso. Inoltre, è convinto che sia tutt'altro che «teorica l'ipotesi dell'espansione del conflitto oltre l'Ucraina». Non gli piacciono però quelle che definisce «le sanzioni culturali», ovvero «il black out d'informazione sulla Russia e sulla sua stessa civiltà, imposto dall'Europa e dagli Stati Uniti». Ciò che alla fine del libro emerge è comunque un sentimento di claustrofobia. Per tutto il viaggio Mian non ha incontrato uno straniero, non ha ascoltato altra lingua che sia il russo, e sempre con «la sensazione di trovarsi sull'orlo di un tempo nuovo, gonfio di minacce come una cupa nube di tifone all'orizzonte». Si chiude il libro con lo stesso sentimento di sollievo del suo autore dopo aver superato l'ultimo controllo che lo separa dal tornare a casa.

Ben costruito, l'unico difetto di Volga blues è a volte nello stile, corrivo (calare le brache, pestare duro, tanta roba, dare di matto, sentirsi in

palla, pompare a manetta, riserve in cascina...) e qui e là da maschio alfa (sbirri, cessi, come c... finirà, eccetera). Lo diciamo con la stima nutrita per il suo autore e con l'invidia che si prova per un simile viaggio.

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