No, non è più un lusso. È pop e un po' deco come un dipinto di Tamara de Lempicka. Non lo è da quando le masse sono ritornate, lo fanno a cicli, sul palcoscenico della storia. Questa volta lo hanno fatto in modo esponenziale, seguendo il viaggio della tecnologia verso orizzonti sempre più effimeri, come se la materia perdesse realtà per assumere forme virtuali, ipotetiche, qualche volta surreali. La cosa strana è che la moda sembra invece aver seguito il viaggio inverso. Se il mondo si svaporizza, la bellezza si incarna e cerca corpi più veri, vicini, solidi. La moda allora non è solo un lusso, ma un meraviglioso viaggio in profondità, dove l'aristocrazia dei grandi stilisti e la borghesia del prêt-à-porter fanno i conti con le grandi masse. Non si chiudono, ma continuano a giocare un ruolo di influencer, l'unico possibile in una società che riconosce solo frammenti culturali. La moda non è più un'illusione o il territorio esclusivo delle favole. È fatica, sudore, organizzazione, spettacolo, mestiere (quello che resta), industria, mercato globale, personaggi, gossip, titoli di borsa, investimenti, lavoro e soldi. Questo non significa che il talento sia scomparso, ma semplicemente non basta da solo a sostenere la bellezza.
C'è qualcosa a cui questo mondo non ha mai rinunciato. È la vocazione più antica.
È quella spinta che porta gli stilisti a cercare l'universale per poi renderlo reale, possibile, quantificabile. Sono le due spinte che hanno dato una dimensione al Rinascimento italiano, gli artisti e i mercanti. È l'eterna rincorsa tra spirito e materia.
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