Roma, era il 22 giugno 1983, una ragazza stava tornando a casa dopo una lezione di musica quando scomparve misteriosamente nel nulla. Si chiamava Emanuela Orlandi. Quaranta anni dopo il Parlamento ha ritenuto di insediare una Commissione di Inchiesta sul quel caso rimasto ad oggi irrisolto. Un atto meritorio, visto che la vicenda ha visto coinvolti, in modo mai chiarito, dal Vaticano ai Servizi Segreti, dalla Banda della Magliana, ad un possibile serial killer. Sul mistero della Orlandi indaga ovviamente anche la Procura di Roma, ma le Camere hanno ritenuto opportuno affiancare a quella inchiesta penale una indagine politica, per cercare dì comprendere e spiegare all'opinione pubblica i contorni di quella misteriosa vicenda.
Per la verità il Parlamento della Repubblica non ha mai lesinato, negli anni, Commissioni di inchiesta su un numero ampio e variegato di argomenti, talvolta seri o addirittura drammatici, altre volte francamente strumentali e ideologici, come, ritengo, nel caso dell'emergenza Covid. Dal delitto Moro, allo smaltimento dei rifiuti, dalla situazione dei migranti a quella femminile, dalla condizione dei lavoratori a quella dei giovani, dal terremoto del Belice al caso Sindona. Potrei andare avanti per una buona pagina scritta fitta, sono innumerevoli le Commissioni insediate su sollecitazione delle varie forze politiche.
Su un solo argomento il Parlamento non sembra avere alcuna voglia di approfondire, ovvero quello che riguarda un potere vicino di casa: quello della magistratura e tutto ciò che le ruota attorno. Un potere, quello giudiziario, che, al contrario, non ha fatto mancare le sue attenzioni, spesso malevole, verso la politica e le sue prerogative. E questo nonostante il sistema giudiziario sia stato scosso, negli ultimi quattro anni, da scandali e rivelazioni che avrebbero fatto traballare qualsiasi organizzazione al mondo e i cui contorni e collegamenti restano ancora oggi per lo più oscuri.
Dal «Sistema Palamara», il famoso libro intervista scritto proprio dal Direttore di questo giornale, sono emersi, raccontati proprio da uno dei protagonisti, Palamara appunto, fenomeni degenerativi di un sistema che, partendo dall'Associazione Nazionale dei Magistrati, hanno coinvolto in pieno l'organo di autogoverno dei giudici, il Consiglio Superiore della magistratura, tanto da portare alla radiazione di un suo membro, prima volta nella storia della Repubblica. Rapporti inconfessabili tra giustizia e politica, spartizione delle cariche apicali del sistema su base di appartenenza e corporativa, azioni mirate contro esponenti delle forze politiche che, lungi dal rispondere ad esigenze di giustizia, perseguivano invece vere e proprio strategie di destabilizzazione di taluni partiti o di specifici dirigenti degli stessi.
Nel medesimo lasso di tempo in cui il sistema di potere e di influenza della vita pubblica, descritto e comprovato dalle parole di Palamara e dalle inchieste che ne scaturiscono, produceva i suoi effetti sulla vita democratica del Paese, un altro fenomeno infettava alcune delle più sacre istituzioni del potere giudiziario, come la Direzione Nazionale Antimafia, alcuni dei suoi magistrati, almeno un appartenente del Corpo della Guardia di Finanza che per quegli uffici lavorava. È il cosiddetto caso del dossieraggio, che anche in questi giorni si arricchisce di nuovi dettagli e assume proporzioni sempre più inquietanti. Dall'inchiesta in corso a Perugia, infatti, emerge che sarebbero ben duecentomila i documenti illegali, riguardanti politici, imprenditori, personalità note e meno note, sottratti illegalmente dalle più protette banche dati dello Stato da Pasquale Striano, ufficiale delle fiamme gialle, e da almeno un magistrato, Laudati, accusato dalla Procura umbra, competente per i reati commessi da magistrati nella capitale.
Questi dossier, illecitamente sottratti e divulgati, dal 2018 fin quasi ai giorni nostri, hanno alimentato articoli giornalistici, di cui io stesso sono stato oggetto e vittima, atti a screditare una classe dirigente. E, ciliegina sulla torta, a guidare la Direzione antimafia negli anni in questione era un magistrato, Cafiero De Raho, oggi vice presidente proprio della Commissione antimafia in Parlamento, in quota Movimento 5 Stelle. Ora, è di tutta evidenza che degli aspetti penali di queste vicende debba occuparsi la magistratura stessa, ma è altrettanto evidente la necessità di fare chiarezza circa gli scopi, i contorni, gli equilibri istituzionali, le connivenze, gli interessi in gioco, le strategie di vicende tanto gravi che hanno turbato e forse ancora oggi incidono profondamente nella vita politica e sociale del Paese. C'era una regia? Qual era lo scopo di tutto ciò? C'erano all'interno della magistratura correnti ideologiche che perseguivano scopi politici? Domande a cui non deve rispondere una corte penale, bensì un approfondimento politico della istituzione che detiene il potere popolare: il Parlamento.
Qualcuno ha definito la portata delle vicende che ho cercato di riassumere superiore a quella della Loggia P2, nei primi anni Ottanta. Allora una Commissione Bicamerale di inchiesta venne insediata nell'arco di tre mesi. Oggi, a distanza di anni dalla scoperta del «Sistema Palamara» e di molti mesi dall'esplosione del verminaio dei dossieraggi, Camera e Senato sembrano vivere nel torpore, nell'inconsapevolezza, o, peggio, nella pervicace volontà di non mettere le mani in nessuno di questi casi, lasciando alla sola magistratura il compito di valutarne la portata e soprattutto di scriverne la storia.
Io credo, invece, che una Commissione di Inchiesta sia indispensabile, non solo per fare finalmente luce su tutti gli inquietanti aspetti di queste vicende, anche quelli privi di rilevanza penale, ma anche per dimostrare la reale volontà delle
forze politiche di mettere mano ad una riforma, quella della giustizia, oggi affidata agli sforzi solitari del Ministro Nordio. Una riforma la cui esigenza nasce anche, o forse soprattutto, da queste inquietanti vicende.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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