"La malattia mi ha reso come mio padre sotto i bombardamenti"

In "Il guerriero di porcellana" l'autore francese racconta la guerra vista da suo papà bambino

"La malattia mi ha reso come mio padre sotto i bombardamenti"

Nel giugno del 1944, la madre di Mainou muore di parto. Lui ha dieci anni e vive vicino a Montpellier, ma il padre parte per la guerra e lo spedisce al di là del confine, nella Francia occupata dai tedeschi, a nascondersi dalla nonna. È lì che Mainou vive la guerra, il dolore, il lutto, la liberazione. Montepellier, la città di Mainou, è quella dove è nato Mathias Malzieu. Mainou è suo padre. Malzieu è musicista (la sua band sono i francesi Dyonisos), regista e scrittore bestseller grazie a La meccanica del cuore (Feltrinelli, 2012), un romanzo diventato un film di animazione prodotto da Luc Besson e finalista agli Oscar e ai César. Mainou è il piccolo protagonista di Il guerriero di porcellana (Feltrinelli, pagg. 192, euro 17): un po' biografia, un po' autobiografia, un po' diario, un po' lettera d'amore alla propria famiglia, nel mezzo di una guerra devastante e degli orrori del nazismo.

Mathias Malzieu, questo romanzo è la storia di suo padre?

«Diciamo che ho cercato di usare i ricordi di mio padre per far crescere un vero romanzo che mettesse insieme la grande Storia e ciò che ho immaginato della sua, e in cui metto anche qualcosa di me, delle mie emozioni».

Che cosa c'è in questa storia?

«Mio padre mi aveva raccontato del periodo della Seconda guerra mondiale, con lo zio Émile, la zia Louise, la nonna... Aveva dovuto attraversare la linea proibita e si era nascosto. Era tutto molto importante per lui. E mi aveva letto le lettere di sua madre: la prima che riporto nel libro è vera, è proprio di sua mamma. Ne ho un ricordo molto forte».

Perché ha deciso di scriverne?

«A un certo punto mi sono ammalato e ho dovuto fare un trapianto di midollo osseo: mio padre veniva a trovarmi ed era molto difficile per lui. Era mio padre. Così ho lottato per essere un figlio e, anche, per essere un giornalista e chiedergli di più della sua vita da bambino, durante la Seconda guerra mondiale. E, mentre ero in ospedale, ho iniziato a riflettere non solo sulla malattia, ma anche su altro, per esempio parlavamo molto dei Mondiali di calcio...».

Da quell'esperienza è nato Vampiro in pigiama.

«Un romanzo sul trapianto e sul viaggio che ha comportato. Appena l'ho finito, mi sono rimesso al lavoro su questa storia, ma i libri sono come le canzoni: certe sono da scrivere subito, altre devono macerare per un po' in frigorifero... E questo romanzo aveva bisogno di tempo affinché io ne prendessi la giusta distanza».

Come lo ha affrontato?

«La prima stesura era in terza persona, come un racconto, al passato. Dopo due anni ci sono tornato sopra e l'ho trasformato alla prima persona e al presente, e questo ha cambiato qualcosa della realtà. Mio padre aveva quattro anni all'epoca dei fatti, così l'ho reso un po' più grande e gliene ho dati dieci, proprio per farlo parlare in prima persona. Ho adattato il mio stile a quello di un bambino. E a quel punto ho trovato la musica del libro».

Come si è immedesimato nel piccolo Mainou?

«Mi sono immerso nella mia stessa sensibilità, in quello che ho provato quando ho perso mia mamma e durante il periodo di solitudine in ospedale, quando sono rimasto per sei settimane in una stanza sterile e nessuno poteva toccarmi: è stata una trasposizione fra la perdita di mia madre, quella prigione vissuta in ospedale e i ricordi di mio padre, di quando cadevano le bombe e lui dormiva in cantina, per esempio. Ho cercato di immaginarlo bambino: non era la realtà, bensì una possibile realtà. Ho seguito il mio cuore».

E così ha funzionato?

«Ho riscritto il libro tre volte. Dopo la versione in prima persona, c'è stata una seconda versione con alcuni stratagemmi, come una macchina del tempo, che forse userò per l'adattamento cinematografico, a cui sto già lavorando».

E nella terza versione?

«Mi sono concentrato sulle emozioni dei personaggi. Per me era importante, perché questo è il mio libro acustico. Con la band a volte siamo molto rock and roll, altre volte però c'è una canzone per la quale servono solo una chitarra acustica, un pianoforte e un'armonica...».

Qui?

«Qui c'è questo ragazzino che ha attraversato il confine, è nella zona occupata, ha perso la mamma, non sa se il padre tornerà dalla guerra, ha uno zio carismatico, una nonna molto presente e una zia fastidiosa: non c'era bisogno di una chitarra elettrica. Sono fan sia di Iggy Pop, sia di Leonard Cohen: questo è più un libro alla Leonard Cohen».

Mainou è il diminutivo di Germanou: questo confine labile con la Germania è già nel nome?

«La madre di mio padre era nata in quella che era ancora Germania, prima della Prima guerra mondiale; senza la guerra, non sarebbe morta di parto. Perciò mio padre ha cresciuto me e mia sorella secondo i valori dell'universalismo: per lui è difficile fare differenza tra francesi e tedeschi. Del resto ho ricevuto il sangue di una ragazza tedesca».

Col trapianto?

«In Vampiro in pigiama racconto la storia della mia rinascita e del viaggio che ho fatto, in bicicletta, per andare a Düsseldorf a incontrare la mia salvatrice tedesca. Mia madre era spagnola d'Algeria, io ho i capelli rossi come i tedeschi... È come fra russi e ucraini, oggi».

C'è un parallelismo fra la guerra di allora e quella di oggi?

«Mia moglie è ucraina. Vede, è sempre la stessa malattia: c'è un tizio, un Napoleone, seppur con caratteristiche diverse... Ogni Paese ha la sua ora buia. Oggi c'è Putin, noi abbiamo avuto Pétain, voi italiani Mussolini. Il problema non è avere brutte cose nel proprio passato, il problema è imparare da esse: e la cosa triste è che, dopo Stalin e Mao, al Cremlino si ricominci».

La letteratura ha un ruolo?

«La poesia e l'umorismo cambiano il punto di vista, la percezione delle persone: per questo tutte le dittature li combattono, e bruciano i libri. Sappiamo che cosa è successo a Rushdie».

Al centro della vita di Mainou però, più forte della paura e dello sconvolgimento della guerra, c'è il dolore per la morte della madre.

«È così. Scritto in prima persona era più un romanzo storico, sulla guerra, ma io non sono uno storico: questa è la storia di una ragazzino che è rimasto senza la mamma e il cui papà è al fronte; la guerra è il contesto. Non volevo buttarla in politica: è un bambino, e per lui la cosa più importante è che la sua mamma è morta. E ogni cosa o persona che incontri e abbia un legame con la madre è, per lui, uno strumento per elaborare il lutto. È un libro su un ragazzino che, nel contesto della guerra, ha il cuore per sopravvivere e non cadere nel vittimismo: è la storia di una guarigione».

Come immagina l'infanzia di suo padre?

«Credo sia stata terribile. Ha perso anche mia madre presto. Ma mio padre non si è mai lamentato: ora è anziano, ha avuto una vita piena di gioie, una famiglia, ha fatto viaggi ed esperienze.

Quel bambino spezzato che ha trascorso due anni nascosto non è la sua identità. Il problema del vittimismo è quello di fare dell'esperienza la propria identità: invece lui è lui, e questa è la sua vittoria. Bisogna combattere, attraverso genio e magia: lavorare, e ricominciare».

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