"Mamma Dora? Anche lei ha lottato contro la mafia. Oggi avrebbe gioito"

Il figlio del generale Dalla Chiesa ricorda la madre "dolce come le sue torte e forte sostegno per papà"

"Mamma Dora? Anche lei ha lottato contro la mafia. Oggi avrebbe gioito"

«Sono oltre quaranta giorni che vivo senza quella creatura. Senza un segno da colei alla quale avevo donato, dall'età di 19-20 anni, la mia intera esistenza». A scrivere nel suo diario è il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, parole scelte per il pannello della mostra a Palazzo Reale di Milano «L'Uomo, il Generale 1982 - 2022». La «creatura» è Dora Fabbo, la sua prima moglie. È la fine di marzo del 1978, più di quaranta giorni sono trascorsi dal 19 febbraio, quando la moglie Dora è morta d'infarto. «Durante il funerale il sacerdote, che era il cappellano dell'Arma e l'aveva conosciuta, disse che mia madre era stata la vittima più silenziosa del terrorismo» ricorda il figlio Nando dalla Chiesa, docente di Geopolitica e criminalità organizzata all'Università di Milano. Rievoca quei giorni di terrore: «Mio padre aveva il coordinamento della sicurezza delle carceri. Cinque giorni prima era stato ucciso il giudice Palma, suo collaboratore, e questo aveva alimentato la paura che lei cercava di tenere a bada da anni». La fiction su Rai1 Il nostro generale, con Teresa Saponangelo nei panni di Dora, e la mostra, hanno restituito alla memoria collettiva una donna che ha avuto un ruolo molto importante nella storia di Dalla Chiesa.

Che effetto ha fatto a voi figli non sentire più parlare di mamma Dora, legata da 32 anni di matrimonio a vostro padre?

«Abbiamo vissuto questa eclissi di mia madre come una privazione. Io avevo 28 anni quando lei è morta a 54. Simona, che da lei ha preso più di tutti il talento della tavola e lo spirito della madamina torinese, ne aveva 25. Rita aveva trent'anni. Quando mia madre morì, mio padre cominciò a scrivere tutte le sere un diario».

È il famoso diario del generale Dalla Chiesa.

«È nella forma di un dialogo immaginario con mia mamma, alla quale raccontava le proprie giornate. All'inizio avevo pudore a leggerlo, perché era pieno di parole d'amore. È lì che abbiamo trovato informazioni anche importanti come il colloquio con Andreotti. Lui si confidava con lei da vivo e ha continuato con il diario. Lo ha interrotto quando ha deciso di sposare Emanuela, i primi di maggio del 1982 (le nozze avvennero il 10 luglio, l'assassinio il 3 settembre dello stesso anno, ndr)».

Come è arrivato suo padre al matrimonio con Emanuela?

«Mio padre le disse subito che avrebbe tenuto le fotografie di mia madre. Emanuela rispose che avrebbe rispettato Dora, che non pretendeva da lui che la emarginasse dai suoi affetti. È stata molto comprensiva».

Che cosa ricorda con particolare emozione della vita familiare?

«Mia madre ammorbidiva tutte le asperità, difendeva in ogni forma l'armonia. Quando tornai da un esame di Economia politica arrabbiatissimo, perché insieme a un mio amico avevo avuto il diciotto obbligatorio, ero infuriato con i professori. Era il maggio del 1969, mio padre non apprezzava l'ostilità verso i docenti; mia madre, che capiva e condivideva le mie critiche, rielaborava il mio modo di protestare in modo che fosse gradito a mio padre».

Sua madre proteggeva l'armonia familiare anche dalla normale gelosia del marito verso le figlie?

«Rita era molto corteggiata a Palermo, ma mio padre voleva che tutto passasse per il mondo dei carabinieri, incluso il marito di lei. Mia madre smorzava sempre sui corteggiatori di Rita, diceva: è un caro amico, è una persona perbene, ci metteva del suo per evitare asperità. Alla fine Rita si sposò sotto uno splendido arco di sciabole dell'Arma».

Quali sono le qualità di sua madre delle quali sente maggiore nostalgia?

«Era umile e tutt'altro che pettegola, se poteva dire una parola buona su qualcuno lo faceva. Un episodio che mi commosse fu che la titolare della tintoria vicino la caserma di via Cernaia a Torino, che mia madre frequentava abitualmente, quando morì chiese: Ma quella madamina?. Non sapeva che fosse la moglie del generale dalla Chiesa».

Abbiamo visto in tv una donna che sapeva anche consigliare suo marito. Era così?

«È stata il cemento della famiglia: la fiction e la mostra hanno reso giustizia alla sua presenza, anche grazie al lungo dialogo che Rita ha avuto con la Saponangelo. Tra i carabinieri è ancora vivo il ricordo della morte della signora Dora. A Milano con mio padre c'era mia madre, colta e simpatica, dai professori andava mia madre, alla Scala con mio padre andava con mia madre, alle feste dell'Arma c'era mia madre».

Sembra il ritratto della perfetta moglie anni Cinquanta, un passo indietro al marito.

«Non era un passo indietro, lo aiutava. Garantiva con il suo impegno la possibilità di mio padre di dire «signorsì». Nel 1964-1965 dovette traslocare tre volte in un anno con tutti noi, perché mio padre teneva molto all'unità familiare. Oggi chi è l'ufficiale che accetterebbe un simile sacrificio?».

Quando lei è nato, suo padre ha potuto vederla solo dopo quattro mesi.

«Quando mio padre era capitano a Firenze, in Sicilia impazzava il bandito Giuliano, le cui vittime principali erano i carabinieri. Lui partì volontario per Palermo mentre mia madre aspettava me. Lei rimase a Firenze. C'è una lettera di mio padre in cui ricorda «le tue prime lacrime in santa Maria Novella», proprio a causa di quella separazione. Lei sapeva quel che faceva mio padre e lo condivideva, anche perché veniva da una famiglia di ufficiali».

Accanto al ricordo di questi sacrifici eroici conserva memorie dal sapore della quotidianità?

«Cucinava benissimo, si alzava alle sei e mezza per farmi ripassare il greco, andava a letto con la terza pagina del Corriere. Teneva insieme l'economia domestica perché gli ufficiali, allora come oggi, non guadagnavano tanto. Ci faceva i golf, utilizzava tutto ciò che entrava in casa e ci portava a dare il pane secco all'asinello dei Giardini pubblici di via Palestro a Milano. Faceva i dolci. Quando aveva finito, sapendo che mi piaceva la crema cruda, me la faceva raschiare nella zuppiera».

Suo padre e sua madre avevano una canzone preferita?

«Si erano conosciuti al Circolo ufficiali di Bari, lui era all'università e lei al liceo, allora mandava suo fratello Romeo a consegnare a mia madre a scuola le lettere d'amore. Amavano Mina e Grande grande grande era la loro canzone».

Sua madre condivideva con suo padre il senso della giustizia. Lo ha trasmesso anche a voi figli?

«Avrò avuto 13 anni quando c'è stato il crollo della diga del Vajont. Mia madre in cucina piangeva per le vittime. Non avevo mai visto nessuno piangere per persone sconosciute. Fu una lezione. La giustizia nasce da lì: pensi che tutti abbiano diritti, anche gli sconosciuti. Ma il suo senso della giustizia sta soprattutto nell'aver accettato che la famiglia pagasse prezzi a un interesse collettivo».

Crede di avere ereditato una qualità da sua madre?

«Quando i ragazzi, nelle tesi di laurea, mi ringraziano per la gentilezza, penso sempre che è l'eredità di mia madre, la madamina, e sorrido. Anche le mie sorelle sono così».

Sua madre è stata in prima linea anche nella lotta alla mafia. Come avrebbe reagito alla cattura di Messina Denaro? E mi scusi la domanda forse fuori contesto, ma come reagisce lei oggi alla polemica sul 41 bis?

«Mia madre avrebbe gioito, come gioì per l'arresto di Curcio e Franceschini. È stato un grande successo dei carabinieri e ciò sarebbe bastato a renderla felice. Quando mio padre coordinava le carceri, si è battuto perché non ci fosse comunicazione con l'esterno: per questo alcune carceri furono messe nelle isole. La legge sul 41 bis l'ho votata perché l'avevano chiesta Falcone e Borsellino: era ed è una loro eredità da onorare. Mio padre era riservatissimo e mia madre, unica sua confidente, era riservatissima a sua volta. Lui cominciò a parlare un pochino con me nel 1979 e poi a Palermo, alcune battute, perché aveva bisogno di qualcuno che potesse capirlo. È vero quel che si vede nella fiction, che mi scrisse lui la bibliografia per la tesi di laurea sulla mafia. Tornando da Prata, il paese di mio nonno materno, in provincia di Avellino, un giorno arrivò al porto di Palermo e non trovò nessuno a prenderlo. Sa che cosa significa Dalla Chiesa da solo al porto?».

Immagino abbia pensato che la sua vita fosse appesa a un filo.

«È tornato molto preoccupato. L'isolamento lo faceva soffrire. Non gli rispondevano più al telefono».

Che idea si era fatto da quel che suo padre aveva iniziato a raccontarle?

«Credevo che non l'avrebbero ucciso

mai. Non possono farlo, pensavo, perché altrimenti ci mettono la firma. Mi sbagliavo. Non avevo capito che in Italia si può commettere un delitto, firmarlo e contare sul fatto che gli altri non vogliano leggere la firma».

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