Mandato al premier: ora per la Quercia Ciampi è un ostacolo

Paolo Armaroli

Gaetano Gifuni e Andrea Manzella sono paragonabili a due rette parallele. Per incontrarsi si incontrano. Ma sembrano destinati a incontrarsi solo all’infinito. Fateci caso. Se l’uno dice bianco, l’altro dice immancabilmente nero. Non ci sarebbe nulla di male se entrambi contassero come il due a briscola. Il fatto è che contano, e come se contano. Gifuni, dopo una prestigiosa carriera come funzionario del Senato e una breve parentesi ministeriale nel 1987 ai tempi del VI governo Fanfani, da quasi tre lustri è il potente segretario del Quirinale accompagnato da una aneddotica infinita. Chi lo chiama Prudenziano perché regolarmente invita i suoi interlocutori alla calma, convinto com’è, manco fosse Andreotti, che alla fine tutto si aggiusta. Chi lo chiama Parolina perché prima a Scalfaro e poi a Ciampi ha suggerito con discrezione le mosse da compiere. Chi, come Cossiga, lo chiama Flauto magico in senso mozartiano e non massonico. Chi lo paragona a Zelig perché entra in perfetta sintonia con l’inquilino del Quirinale.
Manzella, a sua volta, non è da meno. Si può dire senza tema di smentite che la legge Biagi non se l’è inventata il professore bolognese colpito a morte dalle Brigate rosse. Nossignori, la legge Biagi se l’è inventata lui e l’ha applicata a se stesso. Lui sì che è un monumento alla flessibilità del lavoro. In vita sua ha fatto di tutto, di più. Magistrato, funzionario della Camera dei deputati, consigliere di Stato, segretario generale di Palazzo Chigi, professore ordinario di Diritto parlamentare, deputato europeo e nazionale. Stimatissimo da Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini, è passato dal Pri ai Ds. Ma le sue battaglie parlamentari le conduce più da indipendente che da dipendente di sinistra. Per di più è nella manica di Ciampi, che ha avuto modo di apprezzarlo ai tempi del suo governo come efficientissimo segretario generale della presidenza del Consiglio.
Ciò premesso, veniamo al punto. Non è un mistero che Ciampi, non foss’altro che in omaggio a una regola di correttezza costituzionale, ritiene che la formazione del nuovo governo spetti non a lui, che con buona pace di Manzella scadrà improrogabilmente il 18 maggio, ma al suo successore. Data la delicatezza della questione, è chiaro che avrà richiesto l’avviso dei suoi consiglieri di Palazzo, Gifuni e Sechi in primis, i quali presumibilmente si saranno espressi nel senso appena detto. Passano appena pochi giorni ed ecco che Manzella si mette di traverso. A suo avviso, dovrebbe essere lo stesso Ciampi a conferire l’incarico di formare il governo. Altrimenti il governo Berlusconi rimarrebbe in carica per l’ordinaria amministrazione per settimane e settimane, forse fino a giugno. Dopo di che Ciampi sembrerebbe orientato a formare il governo lui stesso, ma solo nel caso di una schiacciante vittoria dell’una o dell’altra coalizione. Una manovra di avvicinamento a Manzella, la sua, come è accaduto a proposito della disputa sul potere di grazia.
Romano Prodi e Piero Fassino, a parole strenui difensori della Costituzione del 1948, in realtà se ne infischiano delle regole giuridiche. Gente pratica, bada al sodo. Hanno subito abbracciato la tesi di Manzella per un loro tornaconto. Sono sicuri della vittoria, toccando ferro. Ma temono che se il governo non nascerà subito, la coalizione di centrosinistra si squagli come un gelato in occasione di una elezione del successore di Ciampi che alla vigilia appare problematica.

Con il bel risultato che Prodi potrebbe non avere più i numeri per formare un governo vitale. Perciò fanno il diavolo a quattro e, more solito, senza provare vergogna tirano per la giacca il capo dello Stato. Che non ha mai nascosto il proprio fastidio.
paoloarmaroli@tin.it

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