Il Manuale di guerriglia artistica di Marco Meneguzzo (Skira, pagg. 88, euro 19) è di una perfidia diabolica poiché, dietro l'apparente sincero desiderio di dare consigli al giovane artista su come muoversi nel campo di battaglia dell'art system, nasconde le amare constatazioni del critico milanese, uno dei più seri storici dell'arte italiana del secondo Dopoguerra. Letto in un verso il saggio davvero enumera una serie di strategie utili per chi volesse addentrarsi nella giungla del contemporaneo ed uscirne vivo, in filigrana però traluce l'ironia di Meneguzzo, quel lieve sorriso, una sorta di smorfia, che ogni tanto increspa il suo volto di solito austero.
Basterebbe questa duplice possibilità di decifrazione per prediligere il libro rispetto a tanti altri recenti baedeker di arte, a cui si aggiunge la lucidità con cui viene descritto il territorio di conflitto, la capacità di sintesi, la chiarezza quasi matematica del percorso descritto, e una buona dose di umorismo.
Innanzitutto, l'artista deve essere convinto di quello che fa, in modo tetragono, non basta il colpo di fuoco a sorpresa, al contrario vale attrezzarsi per «una lunga marcia» e avere una certa resistenza, ed anche «l'intima convinzione di esser nel giusto va continuamente alimentata, sino a diventare base ideologica», chiosa Meneguzzo, perché non è più sufficiente una generica autoaffermazione egotico narcisista, bensì serve interpretare «una necessità oggettiva», quasi storica, che distingua il vero artista dalla moltitudine di competitor su un mercato sempre più vasto, alimentato dai social. Medesima tensione ideologica sostiene l'artista, benché sia scaduto il tempo delle avanguardie, nella convinzione di stare per proporre qualcosa di nuovo, anzi meglio «una novità» che è del nuovo un succedaneo, «come le uova di lompo lo sono del caviale», rafforzando la cosiddetta «tradizione del nuovo», un avanguardismo di retrovia.
A questo punto si tratterebbe di pensare all'opera che, per paradosso, potrebbe perfino non esistere. L'opera, in ogni caso, si contraddistingue per alcune caratteristiche precise: tendere alla semplificazione, all'immediatezza, alla iconicità, alla spettacolarità, suscitare meraviglia, essere frutto di un certo sentimentalismo, cioè solleticare non più l'intelligenza del principe committente, bensì democraticamente il sentire comune della massa.
L'artista in ogni caso ha il compito di sostenere la sua opera facendosi «personaggio» e magari inventandosi curatore di sé stesso, muovendosi con fluidità nel mondo della comunicazione, perfino se decide alla Banksy di «sparire». L'artista, di fatto, legittima l'opera, solo che l'artista a sua volta ha bisogno di essere legittimato dal pubblico, assumendo il ruolo di creatività, genialità, fantasia che gli sono naturaliter attribuite dalla nostra società.
Infine, è necessario scegliersi degli alleati con cui stare, ma soprattutto dei nemici da affrontare, essere cioè «contro» qualcuno o qualcosa, che non è mai un atteggiamento vincente nel concepimento dell'opera d'arte, ma è «estremamente efficace nella strategia di affermazione, nella scalata se non al potere, certo al successo».
Ciò fatto il guerrigliero artista è pronto per la cooptazione, percependo la bellicosità il sistema infatti gli apre le porte, lo fa partecipare agli utili, essendo che l'arte contemporanea usa il metodo dell'inclusività perché non ammette contraddittorio, sopratutto se si parla di soldi. Lo diceva già Longanesi, tutte le rivoluzioni iniziano per strada e finiscono a tavola.
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