Massaron, discesa (con stile) in un inferno metallico

Prendete un deposito di rottami, un cumulo di lamiere taglienti, e dilatatelo fino a ottenere una spettrale città disposta su molti strati; animatelo in modo che sembri vivo, una creatura metallica in disfacimento; e ficcate infine in queste viscere crollanti una manciata di ragazzini, una banda all’inizio in fuga dal minotauro, poi alle sue calcagna: perché al centro del labirinto c’è un mostro che stupra e uccide.
Non è certo la scrittura espressionista, indistinguibile da tanta altra prosa destinata a rendere soprattutto l’azione dei personaggi e i loro sentimenti, che impedisce di scambiare l’ultimo romanzo di Stefano Massaron per l’ennesimo thriller sull’adolescenza; e nemmeno il tema della catena di omicidi di cui intuiamo subito l’esecutore. Ciò che lo distingue e lo riscatta dai suoi cliché è la determinazione con cui l’autore si serve della metafora della ruggine e dell’ammasso di cascami. Questa metafora, all’inizio sofisticata e tutta di testa, man mano che si procede nella lettura prende a fruttificare, a infittire la sua rete di relazioni simboliche, fino a compiersi dando l’impressione che l’autore e il romanzo siano cresciuti di pari passo, e si siano sgravati simultaneamente delle loro banalità.
Ruggine (Einaudi, pagg. 234, euro 9,50) è ambientato nel 1977 a Milano, nel quartiere popolare degli Alveari, ma si apre nel 2003 con la trascrizione di uno di quei cartelli che per legge devono essere affissi all’ingresso di un cantiere. Stavolta è in costruzione una scuola materna, la «Dottor Ermanno Boldrini». Quando Sandro, che dagli Alveari è fuggito vent’anni prima, capita davanti a quel cartello, non crede ai suoi occhi: che le vicende del passato siano sottoposte dai superstiti a un lungo e oculato raffazzonare, passi; ma che una scuola materna sia dedicata a un criminale è troppo, comunque abbastanza da spingerlo a ricostruire la verità dei fatti e a mettersi in cerca di chi, del tempo andato, ha condiviso gli orrori.
La narrazione fa un balzo all’indietro, negli anni ’70: i ragazzi degli Alveari contendono il magico e selvatico territorio del deposito ai giovani abitatori delle «Casette», figli di immigrati meridionali. La guerra fra bande cessa per lasciare spazio all’alleanza quando una Mercedes nera comincia ad accostare le bambine dei due quartieri, che saranno ritrovate poi tra i detriti e le schegge, con i vestiti strappati e la testa fracassata. Quello che il giorno prima poteva sembrare ancora un miserabile luna park (e in tale rovesciamento c’è un gioco moralistico che meriterebbe qualche riflessione, e forse una censura) diventa un luogo sinistro, Ade e Leviatano, nel quale bisogna penetrare per sconfiggerne il nucleo demoniaco.

Magazzino del rimosso e dunque immagine drammatica dell’inconscio, parte maledetta ma intima, figura metropolitana del contrasto arcaico tra città e selva oscura, e infine emblema di quel passato macchinico e metallico soffocato dal borotalco del nostro presente elettronico, fatto di impalpabile silicio: l’allegoria del deposito di rottami di Ruggine è vasta, affascinante, e riuscita.

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